Gente di montagna

Tomo Česen

Il fortissimo scalatore sloveno è stato protagonista di ascese clamorose alla fine del secolo scorso

“Quando gli alpinisti rendono pubbliche le loro ascensioni ci crediamo basandoci sulla fiducia e sul rispetto. Io credo a Česen, ma non ho nessuna prova al riguardo e non voglio convincere nessuno”.

Mark Twight

Nella seconda metà degli Anni 80 Tomo Česen è uno degli scalatori più conosciuti e stimati al mondo. In breve si afferma come l’alfiere del più puro alpinismo “by fair means”. Passa veloce, in solitaria e in inverno sulle più grandi e difficili vie delle Alpi e porta la stessa velocità e la stessa leggerezza alle altissime quote, dove, sempre da solo, risolve in bello stile alcuni dei massimi problemi del momento sulle montagne himalayane. Poi un passo falso, un sospetto… La sua impresa più grande diviene una pietra dello scandalo e solleva un’ondata di critiche che lo travolge, gettando un’ombra oscura sulla sua credibilità. Con il trascorrere degli anni le polemiche si placano, ma ancora oggi, la salita solitaria di Česen sulla parete Sud del Lhotse rimane uno dei grandi enigmi della storia dell’alpinismo.

La vita e l’alpinismo

Tomo Česen nasce a il 5 novembre del 1959 a Kranj, nel territorio della Slovenia, che in quegli non esisteva ancora come stato indipendente, ma faceva parte della Repubblica Socialista Federale della Jugoslavia.

Sin da giovanissimo si dedica con successo a diverse discipline sportive. Raggiunge ottimi risultati nella ginnastica artistica, dove arriva a vincere i campionati studenteschi nella specialità del cavallo con maniglie, nell’atletica, nella palla mano e nello sci alpino. La scoperta della scalata arriva attorno ai 16 anni, quando si iscrive alla scuola di alpinismo di Kranj e comincia presto a mettersi alla prova con impegnative salite sulle montagne di casa: le Alpi Giulie.

La famiglia lo asseconda volentieri in questa sua passione, tanto che, stando a quanto si legge nel volume “Montagna primo amore”, pubblicato dal CAI nel 1991, il padre arriva addirittura ad impegnare un quarto del proprio stipendio mensile per acquistare al giovane Tomo la sua prima corda da arrampicata.

Nel 1979, a soli 20 anni, prende parte alla sua prima spedizione extraeuropea. Con, Matjaž Dolenc, Peter Markic e Žarko Trušnovec apre una nuova via sulla parete Sud dell’Alpamayo (5947 m). Negli anni successivi si unisce a uno dei migliori alpinisti sloveni dell’epoca, Necj Zaplotnik, e realizza molte importanti salite in Europa.

Il 1983 per lui è l’anno dell’incontro con il mondo dell’alta quota; affronta, infatti, la scalata dei 7495 metri del Pik Communism, nelle montagne del Pamir.

A metà degli Anni 80 la sua formazione è ormai completa e Česen comincia a porsi alla ribalta della scena alpinistica internazionale con scalate che fanno scalpore e rivelano da subito quali siano l’etica e lo stile che lui predilige. Nel 1985 si mette alla prova con la parete slovena del Široka Peč, dove sale in prima solitaria la friabilissima via Skorpion. Arriva poi il veloce concatenamento solitario che lo vede salite dallo Sperone Walker delle Grandes Jorasses, scendere dalla Cresta des Hirondelles e risalire per la via Mc Intyre-Colton.

In quello stesso anno è protagonista di un’epica e tragica scalata allo Yalug Kang, la cima occidentale del Kangchenjunga, che tocca gli 8505 metri. Dopo aver aperto una nuova via sulla parete Nord-ovest raggiunge la vetta assieme al compagno Borut Bergant, ma questi precipita durante la discesa e Česen è costretto a trascorrere la notte a 8400 metri senza attrezzatura da bivacco, arrivando il campo base al mattino seguente. Sono trascorsi sei giorni da quando lo aveva lasciato, nel frattempo il suo corpo è stato sottoposto ad un tale stress da perdere ben 14 chili. Un’esperienza terribile, che però rafforza in lui la fiducia nelle proprie abilità tecniche e nella capacità di sopravvivenza in alta quota: “Mi sentii pronto a misurarmi con l’Himalaya dopo nove anni di scalate – commenta egli stesso in proposito – Un po’ tardi, forse, ma spesso in seguito mi domandai come me la sarei cavata in certe situazioni con meno esperienza…”.

Il 1986 si apre per lui con un altro grande exploit. Nell’estate dell’anno precedente Christophe Profit aveva stupito il mondo concatenando in solitaria e in sole 24 ore le tre grandi pareti nord delle Alpi: Cervino, Eiger e Grandes Jorasses. Česen ripercorre le sue tracce, ma nella stagione più fredda e, dal 6 al 12 marzo, con spostamenti in auto e a piedi, effettua il primo concatenamento invernale solitario delle tre grandi nord.

L’estate lo vede in azione fra le cime del Karakorum, dove in sole 19 ore raggiunge la vetta del Broad Peak (8047 m), salendo da solo lungo la via normale. Rivolge poi le sue attenzioni al K2 dove apre, sempre in solitaria e in 17 ore, una nuova via che va ad innestarsi nel classico itinerario dello Sperone Abruzzi al di sopra degli 8000 metri di quota. Qui l’ascesa dello sloveno si deve interrompere, a causa dell’arrivo del fronte di maltempo. Quasi nessuno degli alpinisti che in quel momento si trovavano ai campi superiori sopravviverà alla terribile tempesta.

Le imprese extraeuropee lo hanno ormai confermato come una delle star dell’alpinismo di quegli anni, ma è ancora sulle vecchie Alpi che Tomo mette a segno una delle sue scalate più impressionanti sotto l’aspetto dell’impegno tecnico e psicologico. Nell’inverno del 1987 compie la prima ripetizione e prima solitaria di No Siesta, un itinerario di arrampicata mista estrema che sale sulla Punta Croz delle Grandes Jorasses. Anche in questo caso la velocità di salita di Česen è sorprendente: 14 ore dalla base alla vetta. Nello stesso anno passa velocissimo in solitaria (solo 7 ore) anche sul Couloir Nord del Dru e nelle Giulie effettua la prima invernale solitaria della difficile via Cetrt stoletja.

Fra il 1988 e l’89 Česen sembra focalizzare di nuovo l’attenzione verso le montagne slovene. Prende di mira la parete Nord del Travnik-Šite, dove mette a segno le prime solitarie e invernali delle vie Črni biser, Zarja, Sveča e Črna zajeda, che egli stesso considera la sua realizzazione più difficile nelle Alpi orientali.

Può sembrare solo un nostalgico ritorno alle origini, ma in realtà l’alpinista sloveno sta sfruttando le severe condizioni invernali delle pareti di casa – che alla severità del clima uniscono un elevatissima richiesta in termini di abilità tecnica e atletica – per prepararsi adeguatamente ad una nuova grande avventura extraeuropea. Un ultimo assaggio di inverno in Dolomiti, per la prima solitaria invernale di Tempi Moderni in Marmolada, e poi al Monte Bianco, per la prima invernale e prima solitaria della Direttissima Gabarrou-Long al Pilastro Rosso del Brouillard, e la preparazione è completa.

Nella primavera dell’89 Česen affronta la Nord dello Jannu, la cima himalayana di 7710 metri divenuta una delle massime sfide del moderno alpinismo tecnico d’alta quota. In 23 ore di scalata, da solo e in stile alpino, supera 2800 metri di parete, spesso su difficoltà estreme ( VI+/A2, 70°-90° su ghiaccio), fino a raggiungere la vetta, per poi avviarsi verso una rocambolesca e disperata discesa lungo la via dei Giapponesi. Secondo lo stesso Česen, viste le difficoltà affrontate e la perfezione dello stile in cui è stata realizzata, si tratta di un’impresa assolutamente innovativa. Ma, assieme allo scalpore e al plauso internazionale, arrivano anche le insinuazioni e le critiche: le documentazione fotografica presentata dallo scalatore risulta lacunosa e le sue stesse descrizioni ad alcuni appaiono troppo imprecise. Sono le prime nuvole che compaiono all’orizzonte, annunciando l’arrivo della tempesta che presto lo travolgerà.

Per nulla intimorito o demotivato dai suoi detrattori, infatti, l’anno successivo Česen punta ancora più in alto: il suo obiettivo è la gigantesca e inviolata parete Sud del Lhotse, considerata in quegli anni come uno dei massimi problemi alpinistici dell’Himalaya, un mostro che aveva respinto gli assalti dei più forti fra gli specialisti dell’alta quota, a cominciare da Messner, che l’aveva tentata nel 1975 nell’ambito della spedizione nazionale del CAI guidata da Riccardo Cassin, e poi il francese Christophe Profit e il polacco Jerzy Kukuczka, che solo l’anno prima vi aveva addirittura trovato la morte. Il 23 aprile, dopo due bivacchi, 45 ore di salita e 3300 metri di scalata con difficoltà fino al VI e A0 su roccia e ai 70 gradi su ghiaccio, Česen è in vetta agli 8511 metri del Lhotse, dopo aver completato in perfetto stile alpino la prima salita assoluta e prima solitaria della terribile parete Sud. Almeno questo è ciò che li afferma. Già, perché quanto avvenuto allo Jannu si ripete anche in questo caso, con una forza e una dimensione ingigantite dalla grandiosità della nuova impresa e dalle prove ancora più incerte che lo scalatore sloveno è in grado di portare a sostegno della sua verità. Progressivamente, ma inesorabilmente, le polemiche e le posizioni scettiche, sulle quali si spostano un po’ alla volta anche alcuni dei suoi più entusiasti e autorevoli sostenitori come Reinhold Messner, arrivano ad offuscare la sua impresa più grande e a gettare ombre anche sulle precedenti tappe della sua carriera.

Forse frustrato da questa ondata di critiche, dopo il Lhotse Česen lascia per sempre l’alpinismo estremo e si dedica all’arrampicata sportiva, raggiungendo livelli di assoluto rilievo. Diviene tracciatore internazionale dell’International Federation of Sport Climbing ed è fra gli organizzatori delle tappe di Coppa del Mondo Lead di arrampicata che si svolgono a Kranj. Dal 1996 al 2002 allena la forte atleta slovena Martina Cufar.

Lhotse, il capolavoro contestato

I primi a mettere in dubbio l’impresa di Tomo Česen sul Lhotse sono gli scalatori della spedizione russa che, poco dopo il suo passaggio, affronta e vince la medesima parete. Non seguono lo stesso percorso dell’alpinista sloveno. La loro è una linea più diretta e difficile, ma ne vengono a capo con un enorme impiego di tempo, uomini e mezzi, e con uno stile decisamente antitetico rispetto a quello leggero e rigorosamente “by fair means” di cui Česen si è fatto alfiere.

A parità di risultato ottenuto il contrasto è evidente e, nella conferenza stampa tenuta subito dopo il rientro a Kathmandu, il capo spedizione Sergey Bershov non manca di sottolineare la sua incredulità rispetto all’idea che un uomo da solo possa avere avuto successo là dove una squadra superattrezzata e superaffiatata di scalatori perfettamente preparati e motivati aveva più volte rischiato di fallire, uscendone per il rotto della cuffia: “Non sto dicendo che non abbia raggiunto la vetta – dichiara – dico solo che se l’ha fatto è un superuomo”.

L’alpinismo è uno sport dove non ci sono arbitri e dove, per molti aspetti, è la credibilità della parola di uno scalatore a determinare la verità dei fatti che egli afferma essere accaduti. Quando questa credibilità viene messa in dubbio da colleghi di riconosciuta autorevolezza, si spalancano le sabbie mobili del sospetto, nelle quali, spesso, ogni movimento e tentativo di recuperare fiducia non fa altro che risucchiare ancora di più verso il baratro, evocando lo spettro della menzogna.

Non molto dopo le esternazioni dei russi è l’alpinista francese Yvan Ghirardini a lanciare le sue critiche e lo fa attraverso le pagine della prestigiosa rivista Vertical. Anche lui, proprio come Česen, ha alle spalle un curriculum di salite solitarie ai massimi livelli, sia sulle Alpi che in Himalaya e sostiene che, quando si afferma di avere realizzato certi exploit, è necessario darne adeguata dimostrazione attraverso descrizioni e scatti fotografici dettagliati, aspetto, questo, su cui lo sloveno è sempre stato carente, non soltanto nel caso del Lhotse.

Ma il colpo più pesante arriva nel 1992, quando Reinhold Messner assiste a Vienna ad una conferenza di Česen. Fino a quel momento il re degli 8000 è sempre stato dalla sua parte, salutando l’impresa al Lhotse come un capolavoro assoluto e un punto di svolta nella storia dell’alpinismo. Dopo aver assistito alla conferenza, però, anche in lui si insinua il dubbio: lo scalatore sloveno parla di costante maltempo e bufere, eppure nelle riprese video e nelle diapositive mostrate il meteo è sempre buono. Inoltre le valutazioni che Česen ha dato delle difficoltà nei tratti superiori della via non gli sembrano coerenti con la sua decisione di procedere slegato. “Da tutte le sue risposte avevo la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava”, commenterà a proposito.

Le cose si complicano ulteriormente quando l’alpinista Viki Groselj si accorge che due delle fotografie con cui Česen ha corredato l’articolo che la rivista Vertical ha dedicato alla prima salita della Sud del Lhotse provengono in realtà dal suo archivio. Sono state scattate nel 1981; una si riferisce al suo tentativo sulla Sud, conclusosi infruttuosamente attorno agli 8000 metri, l’altra è presa dalla cresta che precede la cima, raggiunta però da Groselj lungo la via normale. Messo alle strette Česen ammette di aver “preso in prestito” le foto dell’amico, ma dichiara che lui non ha mai sostenuto che fossero sue, scaricando sulla redazione della rivista l’errore nell’attribuzione dell’autore. Quello che ne risulta, alla fine, è un pasticciaccio brutto dal quale la credibilità di Česen esce ulteriormente compromessa. Le sue descrizioni della scalata, spesso laconiche, sono sottoposte da molti ad attente “vivisezioni”, che non mancano di evidenziare contraddizioni e incongruenze.

Verso la metà degli Anni 90 Česen è ormai nell’occhio del ciclone della polemica e l’uomo che con la solitaria della Sud del Lhotse sognava di aprire una nuova epoca dell’alpinismo si ritrova consegnato alla storia come il protagonista di uno degli eterni enigmi di questa disciplina, al fianco di altre figure di scalatori altrettanto grandi e contestati e ad altre montagne ugualmente belle e impossibili.

Le principali salite

  • 1979, Alpamayo, parete Sud, prima salita
  • 1985 Široka Peč, via Skorpion, prima solitaria
  • 1985, concatenamento solitario Sperone Walker – Mc Intyre-Colton
  • 1985, Yalug Kang (8505), parete Nordovest, nuova via con Borut Bergant (precipitato durante la discesa)
  • 1986, primo concatenamento invernale delle tre grandi nord delle Alpi: Cervino, Eiger, Grandes Jorasses
  • 1986, Broad Peak (8047 m), salita solitaria del lungo la via normale (19 ore dal campo base alla vetta)
  • 1986, K2 (8611 m), nuova via in solitaria (in 17 ore) che si unisce allo Sperone Abruzzi sopra gli 8000 metri di quota
  • 1987, Punta Croz delle Grandes Jorasses, via No Siesta, prima ripetizione e prima solitaria
  • 1987, Alpi Giulie, via Cetrt stoletja, prima invernale solitaria.
  • 1988 e 89, Alpi Giulie, parete Nord del Travnik-Šite, prime solitarie e invernali delle vie Črni biser, Zarja, Sveča e Črna zajeda
  • 1989, Marmolada, via Tempi Moderni, prima solitaria invernale
  • 1989, Monte Bianco, Pilastro Rosso del Brouillard, Direttissima Gabarrou-Long, prima invernale e prima solitaria
  • 1989, Jannu (7710 m), parete Nord, via nuova in solitaria (salita contestata)
  • 1990, Lhotse (8511 m), parete Sud, prima salita e prima solitaria (salita contestata)

Libri

Solo, Tomo Česen, Alpine Studio, 2017 (prima edizione italiana Dall’Oglio, 1991)

Curiosità

Tomo Česen ha un figlio, Aleš, diventato negli ultimi anni uno dei più forti alpinisti nel panorama internazionale vincendo anche due Piolet d’Or, nel 2015 insieme a Marko Prezelj e Andrej Lindič per la salita della parete nord dell’Hagshu (6515 m, Himalaya) e nel 2019 per la salita con Luka Stražar e Tom Livingstone della parete Nord del Latok I (7145 m, Karakorum).

“Perché una volta attaccata la parete, non resta che realizzare ciò che è stato progettato tante volte nella mente, farne un’opera d’arte, fare i movimenti tante volte meditati, cercare con l’aiuto della piccozza gli affreschi di ghiaccio presenti…”

Tone Skarja in merito alla salita compiuta da Česen sulla Nord dello Jannu

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6 Commenti

  1. Più che dubbi ci sono certezze che la parete sud del Lhotse non è mai stata scalata, per non parlare poi del resto. Sarebbe meglio che sulla triste vicenda di Cesen calasse il doveroso silenzio, silenzio che lui stesso ha scelto ritirandosi dalle scene a vita privata dopo le furiose polemiche.

  2. Purtroppo temo che la riuscita o meno delle uscite di Cesen rimarra’ un dubbio per sempre. Io lo incontrai da piccolo a una conferenza e ho letto libri suoi e su di lui e gli credo. Ma prove pratiche non ce ne sono,e’ un peccato che finisca cosi’, ma non vedo molte alternative

  3. Lo stesso alpinista sloveno autore delle foto usate dal Cesen per testimoniare la sua salita al Lhotse mi raccontava che anche la salita alla spalla del K2 è dubbia (itinerario che da quel giorno è chiamato via Cesen forse impropriamente sia perchè l’hanno completato i baschi e sia perchè forse mai realizzato). Lui stesso che era membro di quella spedizione slovena alla quale partecipava anche il Cesen dice che nessuno l’ha visto salire per quella via e che tra loro compagni della stessa spedizione sono convinti che non abbia mai fatto quel percorso.
    Tuttavia per me, se anche solo le realizzazioni fatte sulle Alpi fossero confermate, è stato comunque un grande alpinista.

  4. L’alpinista senza peccati scagli la prima pietra.
    Tutti gli altri, che non sanno e fanno, possono sempre scagliare parole.
    Per me di sicuro ha scalato molto alla grande e ogni tanto è stato molto umano nelle debolezze.
    Forse ogni tanto si è dimenticato che è stato sempre anche lui un conquistatore dell’inutile.

  5. Certo molti dubbi, e poche prove.
    Quindi dubitiamo di tutte le relazioni senza testimonianze sicure? A partire dalle strie di Cesare Maestri?
    Da qualche anno è opportuno portarsi un gps al polso, la traccIa che si lascia è inconfutabile.

  6. Invito tutti a rileggere e a riflettere sul commento di Mark Twigth in apertura di articolo: “Quando gli alpinisti rendono pubbliche le loro ascensioni ci crediamo basandoci sulla fiducia e sul rispetto. Io credo a Česen, ma non ho nessuna prova al riguardo e non voglio convincere nessuno”.

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