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Addio Franco Ribetti. Il ricordo, con il sorriso, di Ugo Manera

Grande alpinista, istruttore e membro del CAAI, è scomparso nei giorni scorsi a 86 anni. Un articolo scritto dal compagno di tante scalate, ne evidenzia lo spirito avventuroso e scanzonato

Lo scorso 18 aprile, dopo una lunga malattia, ci ha lasciato Franco Ribetti, protagonista di tante stagioni dell’alpinismo piemontese. Nato nel 1939 Franco scoprì giovanissimo la passione per la montagna, grazie alle vacanze estive che trascorreva con la sua famiglia ad Ala di Stura, nelle Valli di Lanzo.

Ben presto si fece notare per le sue straordinarie doti atletiche e per il coraggio non comune nell’affrontare anche i passaggi più difficili ed esposti, tanto da entrare a far parte a soli 16 anni degli istruttori della Scuola di alpinismo Gervasutti del Cai Torino fondata dallo zio Pino Dionisi. Un’impressionante serie di prime salite e ripetizioni di assoluto prestigio, realizzata spesso in cordata con altri grandi protagonisti della storia della scalata come Guido Rossa, gli valse giovanissimo l’ammissione al Club Alpino Accademico Italiano.

Franco fu anche un antesignano della disciplina del bouldering, che praticò ben prima che la moda si diffondesse in Italia, salendo svariati passaggi di estrema difficoltà per quei tempi fra i massi delle Corbassere ad Ala di Stura.

Nel 1960, proprio durante un’uscita della scuola Gervasutti, un grave incidente sembra fermare per sempre la sua attività. Lui però non si perde d’animo e, pur rinunciando all’arrampicata, continua a negli anni successivi a dedicarsi alla passione per la montagna e lo sport con un’intensa attività come ciclista, scialpinista e corridore off road.

Verso la metà degli anni Settanta il richiamo dell’alpinismo torna per lui a farsi sentire. Nasce così il sodalizio con Ugo Manera, con cui forma una cordata affiatatissima, che lo vede spaziare dalle spedizioni extraeuropee alle grandi pareti alpine, fino all’alpinismo di ricerca fra le valli meno conosciute del Piemonte. Il nome di Franco Ribetti si affianca così a quelli dei giovani che in quegli anni plorano avanti quel movimento di rinnovamento dell’alpinismo passato alla storia con il nome di “Nuovo Mattino”.

È proprio l’amico fraterno Ugo Manera che ci aiuta a rievocare il carattere e la grinta di Franco, regalandoci un prezioso ricordo estratto dal suo cassetto delle memorie. Si tratta del racconto della rocambolesca apertura della “Via della doppia P…”, alla Parete delle Aquile, in Valle dell’Orco. Una meravigliosa fotografia dello spirito avventuroso e scanzonato di quegli anni rivoluzionari.

Storie Semiserie del Caporal: La “Via della doppia P…” , scritto da Ugo Manera

Una componente non trascurabile della mia lunga “vita” alpinistica è sempre stata quella del divertimento e dell’allegria; non sono mancati attimi dai toni drammatici, ma questi momenti sono una costante nell’alpinismo delle grandi difficoltà e spesso contribuiscono ad arricchire il piatto dei ricordi, come il formaggio grana sulla pasta asciutta.

Sarà forse stata incoscienza creata ad arte, ma quasi sempre la scalata era accompagnata dallo scherzo, dallo sfottò, dalla presa in giro di presenti ed assenti e da canzoni massacrate in modo abominevole. Dal periodo delle allegre salite con Carlo Carena detto “Il Carlaccio”, bersaglio non indifeso delle nostre battute, alle tante scalate con Gian Piero Motti ove cercare l’occasione per la risata era quasi d’obbligo.

Un luogo ove, nel corso dell’aperture di tante nuove vie, non sono mancate situazioni ridicole, fino a sfiorare il paradosso, è il Caporal. Quel formidabile complesso roccioso della valle dell’Orco, che, prima della nostra scoperta, già possedeva uno sconosciuto nome locale: Dirupi di Balma Fiorant.

Acquistò grande notorietà a partire dal 1972 quando divenne la nostra “piccola California”; successivamente passò in secondo piano con l’avvento dell’arrampicata sportiva e degli itinerari attrezzati a spit e fix, salvo poi ritornare alla grande in data recente, con i meeting di arrampicata Trad organizzati dall’Accademico. Ora è conosciuto universalmente ed è facile trovarvi più scalatori stranieri che italiani.

Condite con un po’ di nostalgia mi è venuto voglia di raccontare qualcheduna di quelle storie semiserie cominciando dall’ultima: la “Via della doppia P…” alla Parete delle Aquile, del novembre 1982. Ero in compagnia di Franco Ribetti ritornato alla grande alle scalate; eravamo allora ambedue scafati ultraquarantenni, ma la nostra fu un’impresa esemplare da incoscienti pivelli.

Franco negli anni ’50 era “l’enfant prodige” dell’alpinismo torinese; nipote di Giuseppe Dionisi, fondatore della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti, venne guidato dallo zio alla scuola: a 13 anni era già allievo ed a 16 anni istruttore; la paura era per Franco quasi sconosciuta ed alcuni passaggi da lui superati per primo sui massi delle Courbassere, preludio torinese al moderno boulder, rasentavano la temerarietà. Legato da grande amicizia con Guido Rossa, di qualche anno più vecchio, oltre alle scalate, insieme ne combinarono di tutti colori guidati da spirito dissacrante e scherzoso.

Nel 1960, all’attacco di una via sulla parete nord dell’Uia di Mondrone, nel corso di un’uscita della scuola di alpinismo, Franco scivolò sulla roccia resa umida da recente pioggia e si fece 40 metri di caduta rotolando sulle balze e finendo su una lingua di neve che, probabilmente, gli salvò la vita. Ne uscì con fratture multiple e lesioni interne. Non era ancora l’epoca dei soccorsi con elicottero e venne trasportato a valle adagiato su una scala a pioli a mo’ di barella, reperita in una grangia.

Impiegò due anni a guarire, provò a riprendere l’arrampicata ma poi decise di smettere con l’alpinismo continuando però con lo scialpinismo, la bicicletta e la corsa a piedi. A metà circa degli anni ’70 suo zio Dionisi, sempre impegnato ad organizzare spedizioni nelle Ande Peruviane, lo convinse a partecipare ad una spedizione; l’evento risvegliò la sua passione alpinistica e riprese a scalare.

Allora io facevo parte della direzione della scuola Gervasutti, prima come vicedirettore, poi come direttore, Dionisi, che aveva ancora legami con la scuola pur essendo uscito dall’organico istruttori, mi disse che Franco era ritornato alle scalate e che andava forte come prima del lontano incidente. Io gli proposi subito di convincerlo a ritornare alla scuola e Ribetti ritornò tra di noi con una grande voglia di ricuperare gli anni perduti.

Io ero alla perenne ricerca di compagni di cordata per realizzare i miei obiettivi, al vedere tanto entusiasmo in Franco, gli proposi presto di combinare una salita per conoscerci meglio e per collaudarci a vicenda. La nostra prima salita insieme fu un po’ particolare: una via nuova di roccia su una parete nord alta 1000 al mese di gennaio del 1982. Salimmo la Nord dell’Albaron di Sea in valle di Lanzo con un bivacco in parete e l’uscita in vetta sotto una nevicata. Fummo soddisfatti dell’impresa ed il sodalizio era formato, da allora innumerevoli furono le salite effettuate insieme. Io avevo una fissa per la scoperta del terreno nuovo che rasentava la paranoia, Franco non poneva mai limiti ai miei progetti ed era disponibile a tutto: il compagno ideale.

Ma ritorniamo a Balma Fiorant ed alla Parete delle Aquile: la parete era stata salita per la prima volta da me con Corradino Rabbi e Claudio Sant’Unione ed il nome era scaturito dal fatto che allora la parete era abitata da due aquile che ci giravano intorno mentre noi salivamo sotto il loro nido. Successivamente su quella parete tracciai altre tre vie con compagni diversi; c’era ancora un settore caratterizzato da muri grigi e strapiombi che mi incuriosiva. Era ormai stagione avanzata, il mese di novembre 1982. Franco accolse la mia proposta senza esitazione, così, un sabato dal tempo incerto, partimmo da Torino all’alba che già cadeva qualche goccia di pioggia. Il nostro ottimismo era però senza confini, a Rivarolo qualche dubbio si affacciò in noi e decidemmo di telefonare ad un bar a Ceresole Reale per informazioni sulle condizioni locali del tempo.

Ci risposero che tra le nuvole c’era qualche squarcio di sereno. Fu sufficiente per noi, malgrado tutto era la giornata giusta. Lasciammo la vettura al solito posto sui tornanti della strada di Ceresole e ci avviammo senza più badare alle condizioni meteo; eravamo carichi di materiale e per economizzare sul peso, non prendemmo nessun indumento, oltre a quelli che avevamo in dosso. Trovammo l’attacco logico della nuova via ove avevo previsto ed iniziai io lungo un vago diedro con fessure superficiali di difficile chiodatura. Salii parte in artificiale e parte in libera fino ad un discreto ripiano. Sopra di noi si scorgevano muri grigi compatti con qualche ruga superficiale, Franco si avviò cercando le zone più arrampicabili.

Dopo 5 metri cercò di piantare un chiodo ma non vi riuscì, proseguì, 10 metri, non so lui ma io cominciavo a preoccuparmi, lo esortai a piazzare una protezione ma non vi riuscì, le chiodature complesse non sono mai state la sua specialità, preferiva proseguire arrampicando piuttosto che fermarsi in posizione precaria ad infiggere qualcosa nelle crepe superficiali della roccia. Non era più possibile ritornare in dietro, bisognava andare avanti fino a trovare una fessura; rividi in azione il Ribetti giovane e senza paura. Finalmente trovò una fessura per un chiodo, era ad oltre 15 metri dalla sosta, tirai un sospiro di sollievo.

La salita proseguì sempre molto impegnativa, il tempo volava e noi non ce ne rendemmo conto. Franco raggiunse un microscopico ripiano in mezzo ad un’enorme placca sormontata da tetti e fece sosta. Io lo raggiunsi e continuai lungo un vago spigolo sulla sinistra, solcato da fessure, che portava sotto un marcato tetto. La progressione fu lenta, prevalentemente in artificiale, con ampio impiego di materiale. Quando arrivai sotto i tetti mi accorsi con sorpresa che era quasi buio e stava calando la notte; Franco dalla sua scomoda sosta mi gridò: “Cosa facciamo adesso?”. Oltre a non avere indumenti aggiuntivi non avevamo, naturalmente, neanche portato le pile. Risposi: “Non ci resta che aspettare l’alba battendo i denti”.

Il terrazzino di Franco era piccolo ma almeno poteva sedersi, io ero invece sulle staffe appeso ai chiodi; cominciò un’interminabile notte di novembre. Il cielo, nero dalle nubi, decise di inasprire la nostra meritata punizione, ad un certo punto iniziò a piovere, io ero riparato dal tetto che mi sovrastava mentre Franco era colpito in pieno da un rivolo d’acqua che cadeva dagli strapiombi, in breve si trovò completamente inzuppato.

A circa metà della notte la pioggia si trasformò in nevischio con un brusco calo della temperatura, in breve la parete bagnata si ricopri di un velo di ghiaccio, la nostra situazione cominciava a diventare preoccupante, soprattutto per Franco i cui vestiti fradici cominciavano a trasformarsi in uno scafandro di ghiaccio. Una drammatica invocazione mi raggiunse nella buia notte: “Ugo, se non ci muoviamo io muoio assiderato, ho i piedi insensibili e non riesco più a muovere le gambe”.

Bisognava per forza fare qualche cosa: a tentoni mi slegai ed unii le due corde, le fissai all’ancoraggio ove ero appeso, mi misi in posizione di discesa a corda doppia e, staccatomi dall’ancoraggio, cominciai a scendere liberando man mano le corde dai chiodi e nuts che avevo fissato per salire, ancoraggi che ovviamente rimasero in parete. Le corde erano gelate e la roccia ricoperta da verglas, tanto che come appoggiavo i piedi scivolavo e pendolavo appeso alle corde. Pazientemente, dopo numerosi pendoli, riuscii a raggiungere il mio compagno: io mi ero riscaldato un po’ con tutte quelle manovre, ma Franco era talmente intirizzito da non riuscire a muoversi.

Ricuperai le corde e sistemai una seconda calata, ma il mio socio non era in grado di scendere autonomamente, così lo legai al capo di una corda, lo spinsi nel vuoto e lo calai appeso usando come freno il mezzo barcaiolo e dicendogli: “Quando trovi un ripiano o cengia che ti consente di stare in piedi senza cadere fermati che ti raggiungo”. Il tutto nella più completa oscurità. Così fece ed io lo raggiunsi in corda doppia. A tentoni trovai delle fessure che chiodai per l’ancoraggio della doppia successiva. Ripetemmo l’operazione laboriosa ma con maggior tranquillità perché Franco, grazie al movimento, si era un po’ riscaldato e riusciva a collaborare.

Cominciò ad affiorare qualche battuta sulla nostra tragicomica situazione. Una ultima calata ci portò quasi alla base, la corda era però finita ed il mio compagnò si trovò appeso a sfiorare il terreno, era ancora buio, valutò che gli mancava meno di un metro a toccare e mi disse di mollarlo, così feci ed egli si trovò a terra tra i massi e senza danni. Con le manovre ormai collaudate scesi anch’io e toccai la base mentre cominciava ad albeggiare.

Franco aveva ancora i piedi insensibili ma aveva riacquistato la mobilità; i massi della pietraia erano coperti da un velo di ghiaccio ed era impossibile reggersi in piedi, cominciammo a scendere praticamente a quattro zampe ma eravamo fuori dai guai. Divallammo molto lentamente e quando raggiungemmo la strada di Ceresole era giorno fatto. Anche la strada era coperta da un insidioso velo di ghiaccio ed era totalmente deserta. Un rumore d’auto ci testimoniò che, malgrado il tempo infame, qualcheduno stava salendo. Dissi al mio compagno: “Vuoi vedere che stanno cercando noi?”. Infatti, erano Enrico Pessiva e Claudio Sant’Unione che, allarmati dai famigliari, si erano mossi alla nostra ricerca.

Con la consueta sua schiettezza Claudio, come ci vide sani e salvi, ci apostrofò: “Siete proprio due Pirla”.

L’avventura era finita bene nostro malgrado, risultò che Franco non aveva congelamenti ai piedi, ma la nostra via non era finita ed inoltre avevamo lasciato del materiale in parete, così nella primavera successiva ritornammo con Sant’Unione alla Parete delle Aquile. Dalla cima scendendo in doppia, raggiungemmo il terrazzino ove tanto aveva sofferto Franco e completammo la via ricuperando il materiale che era rimasto in parete. Ritenemmo il suggerimento di Claudio giusto per cui denominammo la nuova via: “Via della Doppia P…” con chiaro riferimento ai due protagonisti.

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