AlpinismoAlta quota

Aleš Česen, due Piolets d’Or e una vita dedicata alla montagna

Classe 1982 Aleš Česen è uno dei più forti alpinisti nel panorama internazionale. Figlio di Tomo Česen, pietra miliare nella storia dell’himalaysmo degli anni Ottanta, ha saputo costruirsi la sua strada senza sfruttare la notorietà del padre raggiungendo altissimi livelli in campo alpinistico.

Già Piolet d’Or nel 2015, insieme a Marko Prezelj e Andrej Lindič, per la salita della parete nord dell’Hagshu (6515 m, Himalaya), quest’anno l’alpinista è stato nuovamente insignito della prestigiosa onorificenza alpinistica per la salita della parete Nord del Latok I (7145 m, Karakorum), insieme a Luka Stražar e Tom Livingstone.

Ragazzo umile, l’abbiamo incontrato sul finire di settembre in Polonia al Ladek Mountain Festival. Un’occasione per sederci attorno a un tavolo, bere un caffè insieme e dialogare sul suo alpinismo.

Aleš, due Piolets d’Or in appena cinque anni è qualcosa di unico…

“Quest’ultimo è stato una vera sorpresa, a differenza del primo. L’Hagshu è una montagna poco conosciuta dove però siamo stati capaci di fare qualcosa che fin da subito abbiamo immaginato sarebbe entrato nella storia dell’alpinismo.

Sul Latok invece è stato diverso, si tratta di una montagna nota che ha visto diversi alpinisti spendersi sulla sua parete Nord negli ultimi 40 anni. Sicuramente posso dire che rispetto all’Hagshu la scalata è stata molto più difficile.” 

Tornando indietro di qualche anno rispetto ai Piolets d’Or, ci racconteresti qualcosa su di te? Come ti sei avvicinato all’alpinismo?

“Io ho lavorato per 5 anni come ingegnere poi, tra 2011 e 2012, ho preso la decisione di lasciare per dedicarmi completamente all’alpinismo. Sono sempre andato in montagna, anche nel periodo in cui lavoravo in ufficio. Ho portato avanti parallelamente i due impegni, facendo anche la guida, fin quando le due cose sono diventate insostenibili e ho così deciso di proseguire con la montagna. In quel momento ho anche scelto di trasferirmi tra le montagne.”

Come definiresti il tuo approccio alla montagna?

“In continua evoluzione. Da piccolo ho iniziato a trascorrere le mia vacanze estive in falesia con mio padre e mio fratello. Al posto di andare al mare andavamo a scalare in Francia o ad Arco.

Poi, seguendo l’esempio di mio padre che arrampica ancora oggi, mi sono buttato sulle competizioni di arrampicata. Non mi piaceva più di tanto e alla fine le ho lasciate perdere per dedicarmi alla montagna e alle sue attività. In seguito è arrivato anche l’alpinismo.”

Un legame profondo quello che ti unisce a Tomo?

“Si, anche se non ho imparato a scalare con lui. Papà è arrivato dopo, quando ha visto che mi divertivo in montagna e ha voluto capire il mio livello. Da sempre è stato uno dei miei punti di riferimento, ma il mio principale compagno di cordata rimarrà sempre mio fratello Nejc, anche se ora non arrampica più.

Torniamo a oggi, quando vi è venuto in mente di provare il Latok I?

“L’idea è di Luka che un giorno ha detto: ‘Sarebbe bello se andassimo in spedizione insieme’. Io ho subito detto di sì e così ci siamo messi a progettare una salita. Avevamo pensato all’Ogre II, ma alla fine la scelta è ricaduta sulla Nord del Latok I. Ci siamo allora messi in contatto con Michael Kennedy, che partecipò alla spedizione che nel 1978 tentò per la prima volta la salita da quel versante, e lui ci ha fornito molte informazioni utili.”

Che sensazioni provi ripensando al Latok I?

“Una bella spedizione, un’esperienza importante. Si tratta però pur sempre di una scalata, certamente difficile e significativa, che oggi ha perso una parte della componente emotiva.”

Vorresti tornare per completare la cresta nord, che avete salito solo in parte?

“No, ci sono tante altre montagne da poter salire. Adesso sto lavorando a una spedizione sempre in Karakorum, nella zona dei Gasherbrum. Sicuramente un progetto in stile alpino, una nuova via insieme a Luka. Ma è troppo presto per parlarne e tutto può ancora cambiare.”

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