Storia dell'alpinismo

Controversie alpinistiche, conoscete le più famose?

Polemiche, l’alpinismo ne è pieno, ma se gli alpinisti sono protagonisti di ascensioni e diatribe, storici e cronisti dovrebbero essere obiettivi

Polemiche, l’alpinismo ne è pieno. Capita in ogni ambito della vita, specialmente quando le difficoltà diventano opprimenti e corpo e mente sono allo stremo, come nell’alpinismo. Si litiga e ci si infuria. A volte non si discute ma ci si tirano silenziose stilettate senza mai affondare il colpo. Altre volte si inventano menzogne per affossare gli altri ed emergere dalla massa. Fa parte della natura umana e non possiamo fare altro che accettarlo. L’oggettività dovrebbe riguardare studiosi e cronisti, non gli alpinisti, da sempre protagonisti di ascensioni e diatribe.

Il loro è spesso un punto di vista che per forza di cose si intreccia con il sentimento e alla fine porta a una ricostruzione parziale. Il vero problema è che lassù con loro non c’è nessuno, e nessuno può permettersi di giudicare a priori l’operato di un alpinista, le sue decisioni, i meccanismi che hanno innescato determinate reazioni. Nascono così quelle storie senza fine, quelle capaci di dividere il popolo degli appassionati creando fazioni e curve da stadio. Dispute che dividono non solo i protagonisti, ma che alla fine allontanano da quegli alti valori ai quali chi frequenta la montagna ambisce. Alcune si risolvono in qualche mese, altre diventano parte della cultura popolare. Scopriamo insieme le più famose diatribe dell’alpinismo.

K2 – 1954

Con buona probabilità la diatriba più famosa dell’alpinismo italiano. La storia della prima salita al K2 ha tenuto banco per mezzo secolo e continua a scaldare i cuori degli appassionati. Tutto inizia quando Achille Compagnoni e Lino Lacedelli decidono di spostare il nono campo più in alto di circa 250 metri rispetto a quanto concordato con il capospedizione e con Walter Bonatti, che sarebbe dovuto salire verso di loro con le bombole d’ossigeno necessarie al tentativo di vetta.

Quando Bonatti, con il portatore Amir Mahdi, raggiunge il luogo prefissato non trova traccia dei compagni. Inizia a chiamarli, riesce a scambiare qualche parola con loro, alla fine il dialogo si conclude con un “lasciate lì l’ossigeno e scendete”. Siamo ormai al tramonto, insensato affrontare la discesa da un Ottomila al buio, stanchi e spossati dalla salita. Individuare la tenda sembra impossibile, così ecco che i due fanno l’unica cosa possibile: preparano una piazzola e attendono. Attendono che passi quell’infernale notte oltre gli ottomila metri, con temperature prossime ai -50 gradi. Guai a dormire, il rischio di congelamenti o di morte è altissimo. Poi arriva il sole, come una benedizione, e i due possono riprendere la strada di valle mentre i compagni recuperano l’ossigeno e puntano alla vetta, ai libri di storia.

Questa versione dei fatti, oggi versione ufficiale su quanto accaduto durante la “conquista” del K2, è emersa solo nel 1961 con la pubblicazione del volume “Le mie montagne” di Walter Bonatti. Qualche anno dopo, in seguito all’uscita di un’intervista diffamatoria sulla Nuova Gazzetta del Popolo, Bonatti prende la forte decisione di inseguire la verità. L’articolo afferma che Bonatti avrebbe ingannato Mahdi promettendogli un tentativo di vetta indipendente, che avrebbe forzato la sua permanenza a quota ottomila nella speranza di sostituire i compagni nel tentativo di vetta e che avrebbe utilizzato parte della scorta di ossigeno per sopravvivere alla terribile notte. Lo scalatore intenta causa al giornalista che ha redatto l’articolo, e vince.

Poi inizia la sua battaglia con lo scopo di far entrare la sua versione all’interno dei report della spedizione. Non è bisogno di gloria o fama il suo, è già ritenuto uno dei più grandi di sempre, quanto la necessità di chiarire i fatti e consegnare al pubblico la verità sugli accadimenti. Verità che al momento è sostenuta solo da Walter, e che non trova menzione nei libri ufficiali della spedizione e in nessun altro racconto.

Nemmeno nelle testimonianze dei protagonisti. Negli anni a venire vengono portate all’attenzione mediatica studi, racconti e testimonianze che mettono in risalto tutti i punti chiave di quella notte. Bonatti non è più solo nella sua battaglia. Negli anni Novanta il CAI commissiona al giornalista e storico dell’alpinismo Roberto Mantovani una revisione storica sugli eventi della vigilia di vetta sul K2.

Vengono riconosciuti il ruolo di Bonatti alla salita e la veridicità della sua versione degli eventi, ma l’alpinista non è ancora soddisfatto. Nei primi anni Duemila viene istituita una commissione di “tre saggi”, che effettua un’analisi storico-critica sulla relazione ufficiale di Ardito Desio tenendo conto di quanto emerso nel corso degli anni, finalmente si giunge alla conclusione di questa storia. Nel 2004 viene rettificata la versione ufficiale del CAI, riconoscendo a Walter Bonatti il suo ruolo nella prima salita al K2 e la veridicità dei fatti accaduti oltre gli ottomila metri di quota nella notte tra il 30 e il 31 luglio 1954. Qualche mese fa però, un’intervista dell’alpinista Francesco Saladini a Fernanda Mossini, che riporta il punto di vista di Compagnoni, riapre almeno parzialmente la questione.

Cerro Torre – estate australe 1958/1959

Ci sono montagne che portano per sempre il nome degli uomini che le hanno affrontate, una di queste è l’elegante e difficile Cerro Torre per sempre legato alla memoria del trentino Cesare Maestri. Lo scalatore gli si avvicina per la prima volta nel 1958, con a una spedizione italo-argentina.

Una volta raggiunta la base della montagna incontra un’altra spedizione italo-argentina di cui fanno parte anche Walter Bonatti e Carlo Mauri. Subito tra i due gruppi si accendono scintille che portano al ritiro di alcuni sponsor e a gravi problemi nel finanziare la salita. Come conseguenza Maestri non riesce a tentare il Cerro Torre. Un’esperienza amara, che non gli fa dimenticare la montagna rimasta inviolata. Per questo un anno dopo è nuovamente in viaggio verso il Sudamerica. Con lui sono il forte alpinista austriaco Toni Egger e Cesarino Fava.

A tentare la vetta sono Maestri ed Egger, partono il 28 gennaio del 1959 sfruttando una finestra di bel tempo che si chiude rapidamente trattenendo i due nella bufera per giorni. Ad attenderli, alla base della parete, c’è Fava. Aspetta fino al 3 febbraio quando finalmente, dalla nebbia intravede la sagoma di Maestri in discesa.

Il suo racconto è tragico. Cesare spiega di aver raggiunto la cima con Egger e che durante la discesa, lungo una via diversa, quest’ultimo è stato travolto da una valanga. Con sé Maestri non ha alcuna prova dell’avvenuta salita, la macchina fotografica è rimasta con Egger, da qualche parte ai piedi della montagna. I tentativi di ritrovare il corpo di Toni Egger sono vani, alcuni resti vengono poi recuperati nel 1974 ma non la macchina fotografica.

Nonostante l’assenza di prove il racconto di Maestri non viene messo in dubbio, almeno fino a quando nel 1968 una spedizione inglese affronta il Cerro Torre lungo un itinerario ritenuto più semplice rispetto a quello superato nel 1959. Gli alpinisti non riescono a raggiungere la cima e, una volta rientrati, iniziano a porre domande riguardo la riuscita del progetto di Maestri. A raccogliere queste opinioni è la rivista Mountain che in seguito analizza a fondo la salita del 1959 focalizzando l’attenzione su tutti i punti deboli del racconto.

La risposta di Maestri non si fa attendere. Il trentino decide di organizzare una nuova spedizione diretta alla montagna. Parte nel 1970 insieme a Ezio Alimonta, Daniele Angeli, Claudio Baldessarri, Carlo Claus e Pietro Vidi. Il gruppo sceglie di affrontare la salita lungo l’inviolato spigolo Sud-est. Scalano portando con sé un compressore con cui conficcare nella roccia dei chiodi a espansione, negli ultimi 350 metri ne utilizzano circa 400.

Dopo aver ferito la roccia con l’ultimo di questi, Maestri si ferma, senza scalare il fungo di ghiaccio che forma la vetta del Torre. “Non fa veramente parte della montagna, prima o poi cadrà”. Questa è la motivazione con cui l’alpinista giustifica la scelta. In discesa, Cesare rompe gli ultimi trenta chiodi, e àncora ad altri il compressore, i cui resti sono ancora oggi visibili. Per questo il tracciato è anche chiamato via del Compressore.

A causa dell’utilizzo massivo di chiodi a espansione la salita viene pesantemente criticata da buona parte della comunità alpinistica internazionale. A causa della dichiarazione del protagonista, però, anche questa salita viene disconosciuta dal mondo alpinistico. Maestri, che è scomparso nel gennaio del 2021, ha difeso fino all’ultimo giorno la veridicità della sua versione.

Nanga Parbat – 1970

Aver sacrificato il proprio fratello per la gloria. Questa l’accusa che è stata rivolta a Reinhold Messner dopo gli avvenimenti che l’hanno coinvolto sul Nanga Parbat nel 1970.

Ma partiamo dall’inizio. Nell’autunno del 1969 Reinhold Messner, giovane astro dell’alpinismo altoatesino, viene invitato a prendere parte alla spedizione guidata dal professor Karl Maria Herrligkoffer intenzionata a superare la parete Rupal, la più alta e ripida del Nanga Parbat. Pochi mesi dopo, l’invito viene esteso anche al fratello Günther. Entrambi forti e preparati alpinisti sono emozionati all’idea di affrontare il loro primo Ottomila per una via nuova e sconosciuta, sulla parete più alta al mondo.

In spedizione tutto prosegue relativamente tranquillo fino al momento del tentativo di vetta, anche se i rapporti tra Reinhold e il capospedizione non sono certo rilassati. Messner vuole fare la sua strada mentre Herrligkoffer è ancorato a un modo di fare gerarchico che punta solo al successo della squadra, mettendo in secondo piano i traguardi dei singoli. Già nel 1953, sempre qui sul Nanga Parbat, con Hermann Buhl ha dato prova di questo suo atteggiamento.

È il 27 giugno quando Reinhold, Günther e Gerhard Baur si trovano al quinto campo, l’ultimo prima della vetta. Secondo gli accordi presi con il campo base, avendo ricevuto notizie di maltempo in arrivo, Reinhold dovrebbe tentare la vetta in solitaria e in velocità, mentre i due compagni dovrebbero attrezzare il ripido canalone Merkl per agevolare la discesa dell’alpinista. Alla fine nulla va secondo i piani. Günther, di sua iniziativa raggiunge il fratello 4 ore dopo la sua partenza, e prosegue con lui verso la vetta. Gerhard Baur scende verso valle a causa di alcuni problemi alla gola.

Nel tardo pomeriggio i due fratelli Messner sono in cima al Nanga Parbat, ma la gioia deve aspettare. Scendere dalla parete Rupal senza corde e sfiniti dalla salita è praticamente impossibile, bisogna trovare un’altra via. Ma non ora, è buio. Così i due bivaccano sulla montagna per poi, il giorno seguente, traversare sul versante Diamir e ridiscendere per lo Sperone Mummery. È l’unica possibilità per salvarsi e riuscire a portare a valle anche Günther sfinito dalla permanenza in quota.

Quando i due sono ormai arrivati ai piedi della parete, e i pericoli sembrano superati, Günther viene travolto da una valanga e scompare per sempre. Reinhold lo cerca, poi, consapevole di dover sopravvivere, si avvia verso valle trascinandosi sulle mani e sulle ginocchia, perché a causa dei gravi congelamenti ai piedi non è in grado di camminare. Così fin quando raggiunge il primo villaggio trovando aiuto da parte dei locali. Sei giorni dopo si ricongiunge alla spedizione, ormai sulla via del rientro dopo aver dichiarato morti sia lui che suo fratello.

Mentre Reinhold è ancora in ospedale per affrontare le conseguenze dei congelamenti, il mondo alpinistico discute attorno alla vicenda, il cui unico testimone oculare è il protagonista sopravvissuto. Nel giro di poco si diffondono teorie infamanti sull’ambizione dello scalatore altoatesino che l’avrebbe portato ad abbandonare Günther al suo destino molto prima che la vetta fosse raggiunta. Il suo obiettivo non sarebbe stata la vetta, ma la traversata della montagna. Impresa mai riuscita a nessuno prima su un Ottomila. Calunnie e insinuazioni che verranno messe a tacere solo 35 anni dopo con il ritrovamento dei resti di Günther ai piedi della parete Diamir.

Annapurna – 2013

28 ore per salire e scendere dalla parete Sud dell’Annapurna lungo un itinerario nuovo, una via tentata anni prima da Pierre Béghin e Jean-Christophe Lafaille. È questo l’exploit portato a termine nell’autunno del 2013 dall’alpinista svizzero Ueli Steck, una realizzazione che gli vale la candidatura al Piolet d’Or.

Meno di un anno dopo però, ecco che si profilano all’orizzonte i primi dubbi dovuti proprio alla candidatura al Piolet d’Or, l’Oscar dell’alpinismo. Nel marzo 2014 il quotidiano Le Monde pubblica un articolo in cui si mette in dubbio la salita. Mancanza di testimoni oculari, mancanza di immagini per problemi alla macchina fotografica, problemi all’altimetro e al GPS rendono inconsistente agli occhi di molti l’impresa.

Critiche a cui subito arriva la replica di Steck: “No, non ho alcuna foto di vetta dell’Annapurna, perché ho perso la macchina fotografica e un guanto in quella piccola slavina in cui per la prima volta mi sembrò di dover morire. Non è successo e ho continuato, pieno di adrenalina”. Versione confermata anche dallo staff nepalese che si trova al campo base e che ha dato il suo supporto logistico alla prestazione dell’alpinista.

Steck è arrivato in vetta in piena notte, e gli sherpa confermano di aver visto la luce della frontale in movimento giusto sotto la cima. Nessuno ha però visto la sua frontale illuminarsi sulla vetta della montagna. Ma quanto conta allora la parola dell’alpinista? E quanto vale invece la prova certa e palese di un’avvenuta cima?

Tutte le versioni consultate, da quelle degli sherpa a quella di Elizabeth Hawley, il database delle salite in Himalaya, confermano il racconto fatto da Ueli Steck. Ma i dubbi rimangono, anche tra le fila degli alpinisti. È Yannick Graziani ad affermare che “credo fermamente che Ueli abbia fatto la vetta, ma questo non dovrebbe esonerarlo, in quanto alpinista professionista, dal dare prova di quello che ha fatto”.

Lindsay Griffin, storico dell’alpinismo, aggiunge un quesito rivolto agli organizzatori del Piolet d’Or: devono o no includere nello statuto la clausola dell’obbligatorietà delle prove? Domanda complessa da porre nel “non-sport” dell’alpinismo. Il Piolet d’Or non è certo un premio in denaro, ma garantisce visibilità mediatica e consacra i vincitori come i migliori in circolazione offrendo, di conseguenza, qualche vantaggio professionale e commerciale.

Ecco allora che si riaccende la bagarre. Non è più Steck al centro dell’attenzione, ma la sua salita senza prove offre il combustibile per alimentare una diatriba che affonda le radici nella storia dell’alpinismo e cioè quella ricerca di compromesso che vorrebbe la pratica come ultima disciplina libera da regole, ma che in qualche modo vorrebbe incatenare gli alpinisti attraverso convenzioni e principi non scritti.

Nanga Parbat – inverno 2015/2016

È il dicembre 2015 quando Daniele Nardi, Alex Txikon e Ali Sadpara si ritrovano sotto la parete Diamir del Nanga Parbat. Al tempo il penultimo Ottomila ancora da violare in inverno. L’anno precedente sono riusciti a salire rapidi lungo la via Kinshofer, la normale della montagna, sfiorando la vetta.

Il 2016 sembra l’anno giusto per riuscire nella prima salita invernale, e così è. Ma, si sa, i sentimenti umani a volte scombinano i piani e al campo base del Nanga Parbat succede di tutto. Nella stagione 2015/2016 ci sono ben 4 spedizioni vogliose di mettere il proprio nome sulla nona montagna della Terra in inverno. E, come non dovrebbe mai accadere ad altissima quota, diventa una sfida a tutti gli effetti. Una sfida fatta di strategie e alleanze.

Al centro di ogni dialogo la spedizione di Txikon (capospedizione), Nardi e Sadpara che lavora sulla via normale. Dopo poche settimane dall’arrivo al campo base i tre alpinisti scelgono di lavorare insieme alla spedizione di Adam Bielecki, anche lui impegnato sulla Kinshofer. Un accordo che arriva grazie alla mediazione (con qualche malumore) di Nardi e grazie al quale viene attrezzato il verticale “muro Kinshofer”. Pochi giorni dopo però un incidente coinvolge Adam e lo convince a rinunciare alla montagna.

Nel frattempo Alex, Daniele e Ali continuano il loro lavoro e raggiungono i 6700 metri del campo 3. Ma il clima del gruppo non è più lo stesso e un incidente occorso a Nardi in salita sulle rocce Kinshofer è il primo segnale di una minor fiducia tra i componenti. Per Alex e Ali Daniele non ha la giusta motivazione per affrontare la salita, affermano. È troppo concentrato sulla comunicazione, ripetono.

Nel frattempoSimone Moro, impegnato sull’allora incompiuta via Messner-Eisendle con Tamara Lunger, si accorda con Alex Txikon per unirsi alla sua spedizione. Nel giro di poco la situazione degenera tanto che la tensione nelle tende di campo base si taglia con il coltello. Tra Daniele e Simone scatta un feroce dibattito che porta alla rottura definitiva degli equilibri.

Txikon e Sadpara dopo un primo momento di silenzio decidono di continuare la salita con Simone e così Daniele si ritrova solo davanti al Nanga Parbat. Volendo potrebbe continuare la sua salita, ma avrebbe senso? Alla fine propende per la scelta più saggia e rinuncia alla spedizione. “Sono venute a mancare sempre più le condizioni concordate inizialmente con il team, per cui ho deciso di chiudere la spedizione al Nanga Parbat”, dichiara qualche giorno dopo.

Pochi giorni dopo, il 26 febbraio, Alex Txikon, Ali Sadpara e Simone Moro mettono piede sugli 8126 metri del Nanga Parbat, i primi a riuscirci in pieno inverno grazie anche al contributo nella preparazione della via fornito da Adam Bielecki e Daniele Nardi. Tamara Lunger si ferma poche decine di metri più in basso. Due anni dopo Daniele tornerà sul Nanga Parbat insieme all’inglese Tom Ballard. Per entrambi sarà l’ultima volta. I loro corpi riposano a 5800 metri di quota, per sempre parte della montagna. Anche a proposito di questa vicenda si diranno e si scriveranno molte cose.

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2 Commenti

  1. Senza controversie tutto il resto puo’essere noia, ed i blog o riviste o festival o convegni o serate non sopravviverebbero al clima di concordia e rispetto, cortesie e salamelecchi.Poi magari , chissà, i contendenti duellanti si radunano attorno ad una tavolata corroborata da cibi e vini e birra…questa ditta abbigliamento a me , questo sponsor a te, prova sti scarponi ma non farlo sapere in giro , domani dove ci invitano a litigar?

  2. Se ne potrebbero tranquillamente aggiungere altre, a noi meno note come:
    -La salita di Tomo Cesen sulla sud del Lhotse, per cui valgono gran parte dei discorsi fatti per Uli Steck;
    -L’ascensione all’Everest del 1924 di Mallory e Irvine, su cui probabilmente non sapremo mai se sono arrivati in vetta o meno;
    -La salita cinese all’Everest del 1960, accettata ma molto controversa;
    -La salita di Frederick Cook al McKinley a inizio 900, screditata dai più.

    Probabilmente di molte di queste storie la verità non si saprà mai al 100% e non c’è molto da fare. Alla fine anche l’alpinismo ha le sue fazioni!

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