El Chaltén: che aria tira nella Chamonix patagonica
Tra la tradizione alpinistica e il flusso turistico in continua crescita, la capitale argentina del trekking si adatta ai tempi che cambiano. Non tutti ne sono felici
Arrivo a El Chalténla sera del 31 dicembre: c’è il sole, non manca il classico vento patagonico e in tutti i bar del paese si fa fatica a trovare un tavolo o anche solo una sedia. Fuori dal supermercato la fila arriva ben oltre il marciapiede, e per strada passano ragazzi con le mezze corde o le piccozze che sbucano fuori dallo zaino, o un crash pad sulle spalle, oppure i bastoncini da trekking in mano. La sagoma del Fitz Roy che fa capolino sopra i tetti delle case toglie il fiato, e forse è per questo che la montagna qui si respira. È il paradiso dei trekker, dove cime tra le più belle del mondo si raggiungono in poche ore di cammino dal paese, e il punto di passaggio obbligato per gli alpinisti che vogliono sfidare il Fitz, il Cerro Torre, o a qualcuna delle altre guglie della zona. A El Chaltén si ha la sensazione che tutto giri intorno alle mitiche montagne del Parque Nacional Los Glaciares, un po’ come succede a Chamonix con il Mont Blanc.
Il borgo è stato fondatosolo nel 1985, per popolare questa zona all’estremo Sud della Patagonia argentina. Al momento del taglio del nastro c’erano solo un’osteria, un pontee molti cartelli che indicavano gli edifici che sarebbero stati collocati in ciascun luogo. Il giorno dell’inaugurazione ufficiale, il meteo era così ostile da non permettere quasi al vescovo di celebrare la messa. Questa è l’unica cosa che non è cambiata. Oggi, la cittadina conta circa 1200 abitanti ed è fervente di musica, di giovani, di turisti. Durante la stagione estiva, la capitale argentina del trekking si riempie di visitatori argentini e stranieri: nel 2022 se ne sono contati 1.125.000.
I ristoranti sulla strada principale, tutti nello stile un po’ indipendente e falsamente trascurato che sembra maggiormente piacere ai climber, espongono lavagnette con menù dai prezzi forse più alti di quelli di Milano. Si bevono birra e Fernet, ma anche Aperol Spritz e gin tonic, per accompagnare hamburger, empanadas e l’immancabile carne. Qualche strada più in là, le luci si abbassano e la città assume tutta un’altra faccia. Qui, in tenda e in roulotte, vive chi risiede a El Chaltén tutto l’anno, ma d’estate non può permettersi l’affitto e passa cinque mesi in campeggio, al motto di tutto per il turismo.
C’è anche una nutrita ed entusiasta comunità di ragazzi provenienti da Buenos Aires o da altre parti dell’Argentina che trascorrono la stagione lavorando nel turismo in questo luogo di cui sono innamorati. C’è chi fa il cameriere in un ristorante, chi porta i viveri per le agenzie che accompagnano i turisti nei trekking di più giorni, chi è nelle fila dei vigili del fuoco per gli incendi boschivi, chi suona il violino e la chitarra nei locali. Alle due del mattino della notte di Capodanno, tre persone appartenenti a quest’ultima categoria finiscono di lavorare e mettono su uno spettacolo di musica dal vivo per gli amici nel campeggio dove stiamo festeggiando con un tipico asado di agnello patagonico.
Per entrare nel Parco nazionale si pagano 45 euro al giorno
I primi giorni del nuovo anno regalano bel tempo, e i sentieri più famosi della zona vedono un flusso di visitatori tale da farli assomigliare a una via di passeggio. Da quest’anno è stato introdotto un biglietto d’ingresso al Parco: ben 45.000 pesos (circa 45 euro), che si riducono a un terzo per gli argentini. Sulle porte di molti negozi sono affissi cartelli di protesta, con gli hashtag #montañaslibres (montagne libere) e #noalcobro (no al biglietto).Una misura che va nella direzione dello sfruttamento (legittimo) del turismo, ma che taglia le gambe ad arrampicatori, alpinisti e camminatori che sono l’anima di El Chaltén.
Camminando su uno dei sentieri remoti del Parco scambio due parole con una Guida alpina locale. Staportando due clienti europei a scalare su una guglia vicina al Fitz Roy. “Lavoro qui nella stagione estiva e a Chamonix nell’inverno australe” mi dice. “Qui la montagna è selvaggia, senza tutte le infrastrutture che avete sulle Alpi, dai rifugi agli impianti di risalita. Magari qualcosa in più ci farebbe comodo. È possibile che negli anni ci si muoverà in questa direzione, ma è un processo lentissimo e per ora non ce n’è l’intenzione”, racconta.
Un tema delicato è anche quello del soccorso in montagna: per adesso il sistema è agli inizi, è ancora molto auto-organizzato, e ci sono grossi problemi di comunicazione e ricezione dei segnali radio. “Ci è successo un incidente mentre eravamo in mezzo al ghiacciaio, una banale pietra caduta su un piede. Abbiamo provato a chiamare i soccorsi ma non è mai arrivato il segnale, quindi ci siamo divisi negli zaini il materiale che trasportava il nostro compagno che si è infortunato e abbiamo iniziato il lento ritorno. Siamo rimasti in cammino da tre giorni, di cui uno in cui abbiamo dovuto procedere tra i crepacci, montando continuamente teleferiche per il ferito, che ha attraversato il ghiacciaio con il piede in dei sandali, dato che non gli entrava lo scarpone per il troppo gonfiore”, mi raccontano quattro ragazzi, di cui due italiani, incontrati su un sentiero.
Infine, l’impressione è che El Chaltén, dominata dalle guglie di granito e impregnata di una lunga storia alpinistica, sia sotto un incantesimo, che l’ammanta di quell’inconfondibile atmosfera di paradiso della montagna. Se si scava però un po’ più a fondo delle vetrine del centro, sembra però che l’incantesimo possa presto spezzarsi a colpi di biglietti astronomici, overtourism e una sorta di gentrificazione turistica.