Storia dell'alpinismo

Settant’anni fa, la vittoria di Guido Magnone e Lionel Terray sul Fitz Roy

Nella Patagonia argentina si alza una straordinaria piramide di granito. I Tehuelche, gli Indios della zona, la consideravano sacra e la chiamavano Chaltén, “la montagna che fuma”. Il vento dell’Ovest, che soffia dall’Oceano Pacifico, crea spesso un pennacchio di nubi che si allunga dalla cima verso la pampa. Gli alpinisti e i viaggiatori di oggi parlano del Monte Fitz Roy. E’ stato Francisco “Perito” Moreno, il topografo che ha mappato il lunghissimo confine tra l’Argentina e il Cile, a battezzarlo così in onore di Robert Fitz Roy, il comandante del Beagle, il brigantino del celebre viaggio di Charles Darwin.

Le prime esplorazioni di Friedrich Reichert

La Patagonia, terra di pampas, di ghiacciai e di fiordi, di pecore al pascolo e di colonie di uccelli marini e di foche, vede da metà dell’Ottocento, arrivare coloni da Galles, Scandinavia, Germania e Scozia. Il primo ad avvicinarsi a vette e ghiacciai è Friedrich (Federico per gli argentini) Reichert, un chimico nato in Alsazia da una famiglia di lingua tedesca, e che è emigrato nel 1904 a Buenos Aires. Nell’estate australe del 1913-’14 Reichert compie, con il botanico Cristobal Hicken, la prima di otto spedizioni esplorative tra i monti e i laghi della Patagonia. Partiti a cavallo dalla costa dell’Atlantico, i due raggiungono il Lago Argentino, lo traversano in barca, proseguono sul ghiacciaio Moreno fino al confine. Nelle spedizioni successive Reichert esplora lo Hielo Patagonico Norte e lo Hielo Patagonico Sur, tenta per tre volte il Cerro San Valentín e raggiunge i 3491 metri del Tronador. Un anno dopo, il salesiano piemontese Alberto Maria De Agostini vince il Cerro San Lorenzo, una splendida montagna glaciale che raggiunge i 3706 metri di quota.

I primi tentativi del Fitz Roy

Sono italiani anche Ettore Castiglioni, Giovanni “Titta” Gilberti e Leo Dubosc, che compiono nel 1937 il primo tentativo al Fitz Roy, raggiungendo una sella che da allora si chiama Brecha de los Italianos. Tra il 1947 e il 1949 Hans Zechner, un austriaco immigrato in Argentina, tenta la montagna da ovest. Rinuncia, e scrive di una montagna “fantastica, grandiosa, molto più difficile di quel che avevo immaginato”.

Perché le pareti di granito della Patagonia vengano affrontate con successo occorre attendere gli anni Cinquanta, che vedono nel massiccio del Bianco la conquista delle muraglie del Grand Capucin e del Dru. 

In quegli anni, i francesi si aggiudicano le prime ascensioni dell’Annapurna, nel 1950, e del Makalu e della parete Sud dell’Aconcagua, entrambe nel 1955. Fa parte di questo ciclo di vittorie la conquista del Fitz Roy, che Lionel Terray racconta nel suo I conquistatori dell’inutile (Les conquérants de l’inutile, uscito in Francia nel 1961 e in Italia nel 1977). 

La prima salita

Riuscire a partire non è facile. Il Club Alpino Francese ha soldi in cassa grazie agli incassi del libro di Maurice Herzog e del film di Marcel Ichac che raccontano la vittoria sull’Annapurna. Il CAF, però, non vuole spendere troppo per non mettere in forse il tentativo all’Everest previsto per il 1954, se Hunt, Hillary e Tenzing non riusciranno nel 1953. Prima di partire, il capospedizione René Ferlet e gli altri devono fare sacrifici. Guido Magnone vende il suo trattore, Lionel Terray investe metà dei suoi risparmi, anche Louis Depasse, Louis Lliboutry e Georges Strouvé devono contribuire di persona. A coprire la differenza è il medico e alpinista provenzale Marc Azéma. 

A Buenos Aires, dove si aggrega al gruppo l’alpinista argentino Francisco Ibañez, il gruppo viene ricevuto dal presidente Juan Domingo Perón. L’impresa viene funestata dalla morte di Jacques Poincenot, che annega guadando a cavallo il Rio Fitz Roy nel punto in cui verrà costruito il ponte che dà oggi accesso all’abitato di El Chaltén. 

Mentre Louis Lliboutry realizza una dettagliata carta topografica della zona, e dedica le guglie rocciose che si affiancano al Monte Fitz Roy a Poincenot e poi ai piloti francesi Antoine de Saint-Exupéry, Henry Guillaumet e Jean Mermoz, protagonisti delle prima avventurose trasvolate dell’Atlantico del Sud, gli altri salgono verso la cima più alta. 

La parte iniziale della via non è troppo difficile, poi una muraglia di ghiaccio di 300 metri di altezza, costringe i francesi a impegnarsi a fondo, e ad attrezzare interamente la via. Venti giorni di brutto tempo fanno pensare alla rinuncia, poi il meteo migliora. Il 1° febbraio, Terray e Magnone partono per la vetta. Anche se i due hanno chiodi e corde migliori di quelli di Castiglioni e Gilberti, la parete si rivela un osso duro. Un’intera giornata è necessaria per attrezzare centoventi metri della via. L’indomani il tempo è magnifico, e i due francesi partono decisi verso la cima. 

Una durissima arrampicata per placche, diedri e fessure li costringe a impegnarsi a fondo per buona parte della giornata. Alle quattro del pomeriggio, uno strapiombo sembra sbarrare definitivamente la via. Rinchiusi in una grotta cui “fa da soffitto un blocco colossale a forma di cuore”, i due pensano a rinunciare. 

Magnone, un maestro dell’artificiale, chiede al compagno “un altro paio d’ore”. Poi affronta da primo lo strapiombo, piantando con attenzione i pochissimi chiodi rimasti. Quando mancano due metri alla fine delle difficoltà, una martellata fa cadere nel vuoto il penultimo chiodo a disposizione dei due. E l’ultimo chiodo rimasto è troppo largo per l’unica, sottile fessura.

Per un momento la sconfitta sembra certa. Poi Terray si ricorda che due giorni prima, per aprire una scatola di sardine, ha utilizzato un “asso di cuori”, un microscopico chiodo che poi ha riposto in fondo allo zaino. Lo ritrova, lo passa a Magnone, poi questi riesce a piantarla nella spaccatura. Infine, in piedi sulla staffa, raggiunge un buon appiglio e si issa sulla cresta sommitale. Ormai è fatta. 

Anche se il vento dell’ovest diventa ogni momento più violento Terray, il solo ad aver portato i ramponi, continua per un pendio di neve a quaranta gradi. Magnone, da secondo, si arrangia aiutandosi con il martello, con le poche rocce affioranti, con la corda che il compagno tiene tesa. Alla fine, una cresta “molto larga e molto sicura” porta i due alpinisti sui 3441 metri della vetta. Dopo un abbraccio commosso, i due uomini lasciano un moschettone in una spaccatura tra due massi, poi iniziano la difficile discesa che li riporta alla Brecha de los Italianos, al ghiacciaio, alla valle del Rio Blanco e in Francia. 

Qualche anno dopo Lionel Terray, in una lettera al Groupe de Haute Montagne, il Club alpino accademico francese, scrive che “tra tutte le mie salite, la conquista del Fitz Roy è stata quella in cui sono arrivato più vicino ai limiti della mia forza e del mio coraggio”. La lontananza da ogni luogo abitato, il cattivo tempo che regna quasi in permanenza, il ghiaccio della parte alta della montagna e soprattutto il vento che pesa come una minaccia di morte rendono la salita più complessa, rischiosa e snervante di qualsiasi ascensione sulle Alpi” conclude l’autore de I conquistatori dell’inutile. Il medico Marc Azéma è più sintetico, e scrive che l’ascensione dei francesi “ha distrutto tutte le leggende, e supera ogni comprensione”. Chapeau. 

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