Alpinismo

E tredici! Dopo il Nanga Parbat, a Mario Vielmo manca solo un “ottomila”

Mario Vielmo è sempre più vicino alla meta dopo aver raggiunto la cima del Nanga Parbat, il suo tredicesimo ottomila. Con lui abbiamo parlato delle difficoltà di questa ascensione e dei progetti futuri

Trentasette anni fa, nell’autunno del 1986, Reinhold Messner ha stupito il mondo completando la collezione dei 14 “ottomila”. Negli anni lo hanno seguito una cinquantina di alpinisti e alpiniste. Fuoriclasse come Jerzy Kukuczka, Erhard Loretan e Krzysztof Wielicki, molti personaggi più normali, cinque Sherpa, straordinari atleti dell’alta quota come il nepalese Nirmal Purja.

Fino a oggi nell’elenco ufficiale, dopo l’altoatesino Messner, sono entrati altri sei italiani (Sergio Martini, Abele Blanc, Mario Panzeri, Silvio “Gnaro” Mondinelli, Nives Meroi, Romano Benet). Molti, però, aggiungono Fausto De Stefani al quale è stata depennata l’ascensione del Lhotse.

Oggi l’elenco, che continua ad allungarsi, comprende una cinquantina di nomi, e per altre decine di alpinisti raggiungere tutti gli “ottomila” della Terra resta un obiettivo importante. Tra i più vicini alla meta è Mario Vielmo, 58 anni, di Lonigo in provincia di Vicenza, che all’inizio di luglio, sugli 8125 metri del Nanga Parbat, ha raggiunto la sua tredicesima vetta.

Ancora 14 metri: l’intervista a Mario Vielmo

Tra spedizioni coronate da successo e tentativi falliti, Vielmo ha affrontato per una ventina di volte gli “ottomila”. Più volte, nelle sue spedizioni, ha rischiato seriamente, e ha visto morire compagni di avventura e amici. Eppure continua a voler completare la collezione, magari per poi dedicarsi ad altre cime.

Com’è andata sul Nanga Parbat, Mario? Quest’anno sei finalmente arrivato in cima.
È vero, ed è stata una grande soddisfazione. Un anno fa ho dovuto rinunciare per l’improvviso innalzamento della temperatura, che ha reso la via troppo pericolosa. Quest’anno faceva un gran freddo, e la via era in buone condizioni.

Com’è la parete di Diamir del Nanga Parbat? Com’è la via Kinshofer che oggi quasi tutti gli alpinisti seguono?
La parete è meravigliosa, ed è un libro di storia dell’alpinismo che racconta vittorie e tragedie. La via aperta nel 1962 dai tedeschi Kinshofer, Löw e Mannhardt, che è caduto in discesa. La tragica discesa dei fratelli Messner nel 1970, il ritorno di Reinhold con la solitaria del 1978. L’invernale di Moro e compagni nel 2016 e la tragedia di Ballard e Nardi tre anni dopo.    

Com’è la via Kinshofer, oggi, per un alpinista?
Prima di tutto è lunghissima, perché il campo-base, a 4200 metri, è il più basso degli “ottomila”. È pieno di fiori, quando sei lì ti rilassi, ma poi devi salire. È un itinerario bello, abbastanza sicuro. Il “muro Kinshofer”, 100 metri verticali, è duro e faticoso, anche perché arriva dopo quasi 1000 metri di dislivello dal campo II. La parte finale è più facile, ma è lunga.

Molti alpinisti tentano di arrivare in cima al Nanga partendo dal campo III. Quest’anno tu, Valerio Annovazzi, Nicola Bonaiti, Juan Pablo Toro e Muhammed Hussein avete scelto di passare una notte al campo IV. Hai fatto la scelta giusta.
Sì, ma è stata durissima. Eravamo in cinque in una tenda da tre, non riuscivamo a muoverci. Nella notte il tempo è stato pessimo, con un vento fortissimo, poi è migliorato e siamo riusciti a salire. Avevamo tutti avuto delle diarree fortissime, eravamo disidratati.   

Qualcuno vi ha accusato di non aver aiutato il polacco Pawel Kopeć, che è morto lo stesso giorno.
Non avremmo potuto far nulla, purtroppo. Quando è arrivata la richiesta di soccorso, l’edema che lo ha ucciso era in uno stadio molto avanzato. Sugli “ottomila” i tempi e le strategie contano, e se sbagli ci puoi lasciare la pelle.

Tu, ad alta quota, hai visto da vicino la morte varie volte.
È vero. Nel 1998 sul Dhaulagiri ho trovato i corpi senza vita della francese Chantal Mauduit e dello Sherpa Ang Tshering. Nel 2013, dopo aver salito il Kangchenjunga, il mio compagno di spedizione Gurung Bibash, nepalese, è caduto ed è morto. Nell’aprile del 2015 ero al campo-base dell’Everest quando la valanga staccata dal terremoto ha ucciso 25 persone.

Poi c’è stata la tragedia del 2007 sul K2, che è costata la vita a Stefano Zavka. In Italia se n’è parlato molto, con toni accesi.
Mentre scendevamo dalla cima, il K2 è stato investito da una bufera. Daniele Nardi, più veloce, è tornato al campo in tempo, io e Stefano siamo scesi senza vedere più nulla e ci siamo persi sulla Spalla. Le nuvole si sono aperte per un momento, ho visto una luce all’ultimo campo, mi sono salvato. Ho avuto fortuna.

Quest’anno sul Nanga Parbat c’erano varie spedizioni commerciali, compresa quella di Nirmal Purja. Cosa pensi del modello-Everest che ormai tocca tutti gli “ottomila”?
Non mi piacciono le montagne affollate, che diventano anche più pericolose. Ma ormai è così. Sul Nanga Parbat non ci siamo pestati i piedi a vicenda.

Tu nella vita fai anche la guida alpina. Hai mai pensato di andare sugli “ottomila” con dei clienti paganti?
Sì, ci sto pensando da tempo. Dovrei iniziare da vette relativamente facili come il Cho Oyu e lo Shishapangma. E dovrei portare respiratori e bombole, per garantire sicurezza ai clienti.

Hai usato l’ossigeno solo nel 2003, sull’Everest. Perché lo hai fatto? E ti sei mai pentito di quella scelta?
Non avevo molta esperienza, sono andato in cima da solo, all’ultimo campo ho preso un respiratore e qualche bombola e li ho usati. C’era vento a 80-100 chilometri all’ora, senza ossigeno non ce l’avrei mai fatta. Per salire l’Everest senza ossigeno ci vuole la giornata perfetta.

Sei un alpinista molto esperto, in Himalaya e nel Karakorum, sei di casa eppure sei profondamente radicato nel mondo dell’alpinismo veneto.
È vero. La mia prima spedizione, al Broad Peak nel 1996, era diretta da Francesco Cappellari, che oggi è un editore affermato. Tarcisio Bellò era con me al Dhaulagiri nel 1998 ma anche quest’anno sul Nanga Parbat. Tra i miei sponsor, insieme a marchi nazionali, sono varie aziende venete, di proprietà di amici. Ci tengo a ricordare Loro Luce e Gas, CSC, Sergio Bassan Trattori, 2M Net e Sisma.

La collezione degli “ottomila” non rischia di essere una schiavitù, che distoglie l’attenzione degli alpinisti da altre cime magnifiche?
È proprio così. Dopo il Nanga sono andato a Hunza, e ho visto per la prima volta il Rakaposhi. Sul Baltoro si affacciano il Masherbrum e il Gasherbrum IV. Cime meravigliose, ma che non arrivano a 8000 metri.   

Cosa pensi della posizione di Eberhard Jurgalski e dei suoi collaboratori, che vorrebbero depennare dagli elenchi chi si ferma a pochi metri dalla vera cima?
A volte, sugli “ottomila” e non solo, è difficile capire se sei arrivato sul punto più alto o se sei su un altro cocuzzolo della cresta. A volte ci sono delle cornici pericolose. Il caso del Manaslu, dove molti si fermano poco prima, è evidente. Su altre cime credo serva tolleranza.

Per completare la collezione ti manca solo lo Shisha Pangma, 8027 metri. Però diciannove anni fa, nel 2004, sei arrivato sulla vetta centrale dello Shisha, che arriva a 8013 metri. Per completare i 14 “ottomila” ti mancano 14 metri… Ci tornerai? E quando?
Mi piacerebbe tornarci quest’anno, dopo la fine del monsone, ma finora ho avuto dei preventivi altissimi. L’anno prossimo, con la vera riapertura del Tibet alle spedizioni, forse i prezzi scenderanno. Ma so che ci voglio andare.

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