Gente di montagna

Benoît Chamoux

Il fuoriclasse savoiardo, scomparso sul Kanchenjunga nel 1995. A lui si devono alcune delle prime salite in velocità sugli Ottomila

La performance individuale spinta all’estremo porta ad un’arte il cui scopo è quello di abbattere le barriere fisiche e psicologiche. L’intuito, la percezione dell’ambiente, la conoscenza degli elementi sono i principali asset dei miei successi, che però iniziano ad aprirmi la strada verso una visione altrettanto razionale, ma affacciata su un altro mondo

Benoît Chamoux

Benoît Chamoux è stato una meteora. Il suo viaggio nell’alpinismo himalayano è stato rapido è si è interrotto troppo in fretta, tragicamente. Eppure ha lasciato un segno indelebile. Chamoux ha rappresentato al meglio un momento cruciale di trasformazione della mentalità, della tecnica e dello stile con cui si affrontano le montagne più alte del Pianeta.

Scalare le cime di 8000 metri dalla base alla vetta in meno di 24 ore. Questo era il suo ideale, messo in pratica con exploit impressionanti come la salita velocissima del K2, nel 1986. Non si trattava di un semplice inseguimento del record, ma di un concetto decisamente innovativo: la capacità di salire e ridiscendere in velocità grandi dislivelli come elemento chiave per l’efficacia della scalata e la sicurezza degli alpinisti alle altissime quote. Un’idea e uno stile che, negli anni a venire, sarebbero divenuti il punto di riferimento di tutti i più forti himalaysti, soppiantando definitivamente i tradizionali “assedi” e le lunghe ed estenuanti permanenze ai campi alti.

La montagna: un amore a prima vista

Benoît Louis François Chamoux è nato a La Roche-sur-Foron un piccolo paese dell’Alta Savoia, il 19 febbraio 1961, primo di tre fratelli. I genitori hanno una piccola attività agricola alla quale i figli sono chiamati sin da piccoli a dare il proprio supporto, dedicandosi ai lavori che fanno parte della realtà quotidiana di una fattoria.

L’amore per la montagna Benoît lo eredita dal padre. La prima vera escursione rimarrà sempre impressa nella sua memoria come il momento in cui scoppiò il colpo di fulmine di quella passione che avrebbe segnato tutta la sua vita: “Ricordo la montagna dove i miei genitori mi portarono per la prima volta – racconterà – Avevo tre anni e mezzo. In cima ero meravigliosamente felice. Ho visto le case diventare minuscole in fondo alla valle. Mi sono sentito grande”.

I primi rudimenti delle tecniche di scalata su roccia li apprende a scuola, frequentando il collegio Sainte-Marie e giovanissimo, entra a far parte della sezione locale del Club Alpino Francese. Ben presto la montagna diviene il suo interesse preminente, quello che occupa ogni pensiero e al quale cerca di dedicare ogni momento lasciato libero dagli impegni scolastici e dai lavori nell’azienda familiare.

Già in quei primi anni manifesta quella meticolosa e inflessibile attenzione per la preparazione atletica che sarà uno degli elementi vincenti della sua carriera alpinistica. Per allenare fiato e resistenza va a correre sui sentieri indossando un giubbotto con i pesi, realizzato da lui stesso tagliando le maniche ad una vecchia giacca di pelle del padre, nella quale inserisce strisce di piombo. Si impone uno stile di vita regolare e salutista, da vero atleta, agevolato in questo dal fatto che di soldi e tempo da dedicare ai “vizi” ne ha davvero pochi: infatti, anche mentre frequenta gli studi, si trova piccoli lavori che gli consentono giusto di guadagnare quanto serve per acquistare le attrezzature e pagare le trasferte verso le montagne.

Nel 1981 Benoît consegue il Diploma di Stato per i Mestieri della Montagna e nel 1982 diventa Maestro di Sci. Nello stesso anno viene chiamato a svolgere il servizio militare nel battaglione dei Cacciatori delle Alpi di Vars. Dal punto di vista alpinistico questo è per lui un periodo di formazione, nel quale approfondisce la propria esperienza e la propria tecnica, mettendosi a confronto con le grandi pareti e le grandi vie delle Alpi. Questi sono anche gli anni in cui si dedica con ottimi risultati allo sci estremo, disciplina che in seguito abbandonerà progressivamente, per concentrare tutte le proprie energie verso alpinismo sulle più alte vette himalayane.

Alla scoperta dell’alta quota

La prima spedizione extraeuropea arriva nel 1982. Benoît sale il Monte Kenya (5100 m), in Africa, lungo la difficile via del Diamond Couloir. È la sua prima esperienza a quote superiori a quelle del Monte Bianco ed è decisamente positiva. L’anno successivo si mette alla prova ad altitudini ancora più elevate: assieme ad un gruppo di amici si reca in Sud America, dove raggiunge e scende con gli sci diverse vette di oltre 6000 metri, fra queste anche il Nevado Huascaran Sud (6768 m), la massima elevazione del Perù.

Il 1984 segna l’incontro con l’ambiente himalayano. Si reca infatti in Nepal, dove tenta il Dhaulagiri II (7751 m) e l’Everest (8848 m). Entrambe le salite non hanno successo, ma Benoît trae da questa sconfitta un insegnamento che sarà fondamentale per il suo futuro. Analizzando le cause del fallimento si rende conto, infatti, di quanto il tradizionale stile di scalata himalayano, basato su “assedi” che prevedono l’allestimento di molteplici campi e lunghe permanenze in alta quota, sia debilitante per il fisico e le facoltà mentali degli scalatori. Comincia quindi a pensare ad una strategia differente, basata su salite veloci e in continuità, che consentano una permanenza molto limitata al di sopra dei 7000 metri, il limite oltre il quale il corpo umano deperisce progressivamente, senza possibilità di recupero.

Con la tenacia e la meticolosità che gli sono proprie predispone il proprio fisico per adattarsi al meglio a questo tipo di strategia, puntando tutto sulla capacità di superare grandi dislivelli in velocità. Per muoversi in questo modo in alta quota occorre anche essere il più possibile leggeri, rinunciando a quelle attrezzature che potrebbero rivelarsi indispensabili per superare un eventuale bivacco. Si tratta quindi di un salto mentale e strategico, oltre che atletico. Bisogna essere perfettamente preparati, consapevoli e sicuri delle proprie capacità per riuscire a metterlo in pratica.

Un fulmine sull’Himalaya

Il momento della verità arriva nel 1985, quando Chamoux sale rapidamente in solitaria e nell’arco di soli 7 giorni, le cime del Gasherbrum II (8035 m, raggiunta il 15 giugno) e del Gasherbrum I (8068 m, raggiunta il 22 giugno).

È in questa occasione che l’alpinista francese conosce il bergamasco Agostino da Polenza, che è lì con la squadra del progetto “Quota 8000”, anch’essa intenta a salire i due Gasherbrum. È un incontro che segnerà profondamente il destino di entrambi.

Per Chamoux la spedizione al GI e GII è stato un pieno successo, un esperimento perfettamente riuscito per la messa a punto del suo stile di scalata. Un po’ di merito va sicuramente alla natura, che ha dotato lo scalatore savoiardo di un fisico minuto (non raggiunge il metro e 70 di altezza), ma con una capacità toracica decisamente al di sopra della media, cosa che si rivela decisiva alle altissime quote, dove la riduzione della pressione atmosferica limita progressivamente la capacità del corpo di assorbire ossigeno. Ma la sua vera marcia in più è rappresentata dal carattere tenace e determinato, nonché da una mente in grado di restare lucida e funzionare nel modo più efficace anche in condizioni di ipossia e di enorme stress.

Una volta effettuato questo primo test, Chamoux si dedica ad affinare il proprio stile e la propria tecnica, stabilendo un target molto chiaro: salire le vette di 8000 metri in meno di 24 ore.

Nel giugno 1986 affronta il Broad Peak (8047 m) e lo sale in 16 ore partendo dal campo base. La sua progressione in realtà si arresta prima di aver toccato la vetta principale, cosa che renderà questa ascensione contestata. Nonostante ciò l’impresa compiuta resta un exploit innovativo e di straordinario livello. Diciassette giorni dopo è ancora fra i giganti del Karakorum e questa volta il suo obiettivo è il K2 (8611 m). Benoît affronta la via dello Sperone Abruzzi e la sale in sole 23 ore dal campo base alla vetta. È una prestazione incredibile, che rivoluziona gli standard dell’alpinismo himalayano e risalta ancora di più nel drammatico contesto in cui si colloca. Dopo la sua salita, infatti, si compirà il destino di quello che è passato alla storia come l’anno nero del K2, che vide la morte di 13 alpinisti, dieci dei quali perirono in discesa dalla vetta, bloccati ai campi alti da una terribile tempesta. Il contrasto con questa tragedia sembra avvalorare ulteriormente l’equazione che sta alla base della strategia di Chamoux, ovvero: maggiore velocità equivale ad una minore esposizione ai pericoli dell’altissima quota.

L’anno successivo Chamoux si ripete al Nanga Parbat (8125 m), salendo in solitaria e in tempi record dal versante Diamir.

Esprit d’Équipe

Dall’amicizia con Da Polenza, cominciata ai piedi dei Gasherbrum e approfonditasi durante la comune permanenza al K2, nasce un nuovo grande sogno alpinistico. Assieme, infatti, danno vita al progetto “Esprit d’Équipe”, che ha l’obiettivo creare un squadra di scalatori in grado di salire, nel giro dei successivi tre anni, ben sette Ottomila, applicando un rigoroso stile “by fair means”, senza l’utilizzo di ossigeno supplementare e applicando l’innovativa tecnica di salita leggera e veloce messa a punto da Benoit.

Per Chamoux questa esperienza rappresenta un’ulteriore evoluzione nel percorso di crescita personale: non si tratta più soltanto di concentrarsi sulla propria preparazione atletica e sui propri obiettivi sportivi. Ora il suo ruolo è anche quello di leader di una struttura complessa e di un team che si mette in gioco in ambienti estremi, dove gli errori strategici possono avere conseguenze fatali. Per realizzare il progetto però servono prima di tutto risorse. Chamoux e Da Polenza svestono i panni dell’alpinista per indossare quelli del manager. Cercano un partner interessato ad investire in Esprit d’Équipe e lo trovano nella multinazionale francese Bull. Ne nasce quello che all’epoca è il più grande accordo di sponsorizzazione privata nella storia dell’alpinismo.

Nel 1988 il progetto prende il via con uno splendido successo: il 10 maggio Chamoux e altri 4 alpinisti della squadra di “Esprit d’Équipe” raggiungono la vetta dell’Annapurna (8091 m), dopo aver percorso la via Bonington sul versante Sud. Il programma prevede per l’ottobre dello stesso anno la salita dell’Everest dal versante tibetano, ma questa volta l’impresa non è così fortunata: dopo diversi tentativi andati a vuoto il gruppo rinuncia a 200 metri dalla vetta. Nella primavera dell’89 Benoît e compagni sono sul versante Sud del Manaslu (8183 m). Il 12 maggio tutta la squadra raggiunge la vetta. L’anno successivo è la volta del Cho Oyu (8201 m). Il 30 aprile tutti gli alpinisti sono in vetta. Una manciata di giorni dopo Chamoux e la squadra di Esprit d’Équipe affrontano lo Shisha Pangma e il 12 maggio tutti sono sulla cima centrale (8013 m), le condizioni della cresta finale, come spesso accade, rendono impossibile il raggiungimento di quella principale.

Il 1991 per Chamoux è un anno dedicato al completamento della propria formazione: consegue, infatti, l’abilitazione finale per esercitare la professione di guida alpina.

Inseguendo la corona degli 8000

Chamoux torna in Himalaya nel 1992. Da Polenza, infatti, lo vuole al proprio fianco nella nuova avventura a cui sta dando vita, che unisce l’alpinismo alla ricerca scientifica e si pone come primo obiettivo quello di misurare l’altitudine dell’Everest (8846 m) attraverso le più moderne tecniche ottiche e satellitari, effettuando nel contempo esperimenti sulla fisiologia in alta quota e rilevazioni geologiche. La spedizione è un successo totale. In tre giorni nove uomini raggiungono la vetta, portando con sé 15 chili di attrezzatura.

Negli anni successivi Chamoux continua la sua “collezione” di Ottomila. Il 6 ottobre del 1993 è sulla vetta del Dhaulagiri (8167 m) e, nel 1994, sale anche il Lhotse (8516 m). Il 7 maggio del 1995, con l’amico Pierre Royer si impegna in un’ascensione durissima ed estenuante, che lo porta sulla cima del Makalu (8463 m), il suo tredicesimo colosso himalayano.

Il 1994 è anche l’anno del suo matrimonio: Chamoux sposa Fabienne Clauss.

Nelle sue intenzioni il 1995 deve essere l’anno decisivo: ormai è a un passo dal completare la serie degli 8000 e potrebbe essere il terzo uomo al mondo a riuscire in questa impresa, dopo Messner e  Kukuczka.

La notte infinita del Kangchenjunga

Chamoux prepara la spedizione al Kangchenjunga (8586 m), il suo ultimo 8000, assieme al fidato compagno Pierre Royer, ma i mesi precedenti la partenza sono molto difficili per lui. L’impegno per trovare gli sponsor assorbe molte delle sue energie e lo stress per la posta in palio è elevatissimo. Sulla stessa montagna, infatti, sarà impegnato nel medesimo periodo lo svizzero Erhard Loretan, suo diretto concorrente per il primato: anche per lui il Kangchenjunga rappresenta l’ultimo passo verso la corona degli 8000.

Come confermato da lui stesso nel corso di una intervista, Benoît arriva al campo base già molto stanco. Quando la salita entra nel vivo è chiaro che lo sprinter delle altissime quote non è nel pieno della forma. Anche lui questa volta sembra patire la stanchezza e la quota. Il 5 ottobre scatta il tentativo alla vetta. Con lui ci sono Royer e gli sherpa Tillen, Gyaltsen e Rikou. Quest’ultimo, in un passaggio delicato nella parte superiore della parete, scivola e precipita senza scampo. È un momento drammatico e bisogna prendere una decisione. Gyaltsen e Rikou rinunciano, interrompono la salita e scendono verso il campo base. Chamoux e Royer scelgono di continuare. Attorno alle 16, a 8400 metri di quota, incontrano Loretan e Troillet, in discesa dopo aver raggiunto la cima. Una notizia che certo non influisce positivamente sul morale di Chamoux. Eppure lui e il compagno continuano a salire. Alle 18, a un ottantina di metri dalla vetta, Royer rinuncia e fa marcia indietro. Benoît non molla. Sale ancora per una quarantina di metri, ma, mezz’ora dopo, sfinito, è costretto a seguire le orme del compagno. Sebbene rischiarata da un magnifico plenilunio, quella che attende entrambi è una notte terribile.

Alle 7 del mattino del 6 ottobre Chamoux si mette in comunicazione con il campo base. Attraverso la radio la voce tradisce tutta la sua immensa stanchezza. Dice poche parole. Vuole sapere dove si trova Pierre e chiede indicazioni per raggiungere il campo. Si incammina, affrontando il delicato tratto che lo separa dalla tenda e dalla salvezza: una cresta rocciosa da contornare su ripidi pendii. Al base attendono una sua nuova chiamata, ma i minuti diventano ore. Non ci saranno altri contatti radio e l’attesa del ritorno dei due al campo base si rivelerà vana. Qualche giorno più tardi, di fronte all’evidenza della tragedia, anche le ultime disperate ricerche verranno interrotte. Solo il 14 ottobre una squadra di alpinisti arriverà sul luogo dell’ultimo contatto, trovando uno zaino, le imbragature, la radio e nessun’altra traccia dei dispersi.

Nel 1996, nel ricordo di Benoît, la moglie Fabienne e l’amico Agostino Da Polenza hanno dato vita alla fondazione che porta il suo nome e che opera tutt’oggi, occupandosi dell’educazione scolastica di bambini Sherpa che hanno perso il padre sulle montagne.

Le principali salite in Himalaya

  • 15 giugno 1985, Gasherbrum II (8036 m)
  • 22 giugno 1985, Gasherbrum I (8068 m)
  • 20 giugno 1986, Broad Peak (8047 m), salito in 16 ore dal campo base (senza però raggiungere la vetta principale)
  • 7 luglio 1986, K2 (8611 m), salito in 23 ore dal campo base
  • 7 luglio 1987,Nanga Parbat (8125 m) dal versante Diamir
  • 10 maggio 1988, Annapurna (8.091 m) per la via Bonington
  • 12 maggio 1989, Manaslu (8183 m)
  • 30 aprile 1990, Cho Oyu (8201 m) senza raggiungere la vetta principale
  • 12 maggio 1990, Shisha Pangma Cima Middle (8013 m)
  • 29 settembre 1992, Everest (8846 m)
  • 6 ottobre 1993, Dhaulagiri (8167 m)
  • 1994, Lhotse (8516 m)
  • 7 maggio 1995, Makalu (8463 m)

Libri

  • Le Vertige de l’infini, Benoît Chamoux, Albin Michel, 1988
  • Benoît Chamoux – petit prince de l’Himalaya, A.A.V.V., Solar – Omnium édition SDE, 1996

Film

Benoît Chamoux la montagne en partage, Dominique Sanfourche, Francia, 1996, 25′ 

“Mi viene da sorridere pensando ai tre moschettieri: “Tutti per uno, uno per tutti”. Ce l’avevi nell’anima quel motto, mio giovane amico. Di D’Artagnan avevi il coraggio, l’intelligenza e il senso di responsabilità”

Agostino Da Polenza

Articolo pubblicato originariamente nel dicembre 2021 e aggiornato dalla redazione di montagna.tv il 17 febbraio 2024.

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2 Commenti

  1. Grande alpinista, ma le salite in velocità bisogna specificare che le ha fatte su itinerari già tracciati e preparati.
    Raramente ha applicato un puro stile alpino in velocità come altri campioni della sua epoca (vedi ad esempio Loretan e Troillet sull’Everest).

  2. Definire “by fair means” lo stile di Chamoux mi sembra un po’ una forzatura, considerando che per realizzare le sue imprese in velocità si faceva prima attrezzare la via dagli Sherpa e inoltre raggiungeva spesso il campo base in elicottero, cosa che i puristi dei “fair means” decisamente detestano.
    Parlerei di Chamoux come una vittima della pressione dei media e degli Sponsor che in quegli anni cominciavano ad affacciarsi seriamente sul panorama. E lui era un ottimo alpinista ma non una persona adatta a gestioni manageriali di alto livello. Una cosa che spiace molto è che non esistono libri su di lui in lingua italiana, ma solo citazioni sporadiche in altri libri di alpinisti che lo hanno incrociato in spedizione. E non sempre con tono lusinghiero.
    Ricordo sempre la citazione su di lui di Loretan “se non ci fosse stata un’intera nazione a seguire in diretta il suo crollo e la sua agonia, forse sul Kanchenjunga avrebbe ascoltato il suo corpo e non il suo orgoglio”

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