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29 maggio 1953. Due uomini (e una foto) in cima all’Everest

Settima puntata dello Speciale "Everest 1953"

La foto di alpinismo più famosa della storia viene scattata il 29 maggio 1953. Mostra un uomo su una vetta di neve, mentre alza la piccozza in segno di vittoria. Indossa una giacca a vento scura e pantaloni bianchi imbottiti, è legato in vita e al compagno con una corda sottile. Legata al manico della piccozza, garrisce al vento l’Union Jack, la bandiera del Regno Unito, affiancata dai vessilli delle Nazioni Unite, dell’India e del Nepal. L’alpinista si chiama Tenzing Norgay, ha 39 anni è uno sherpa che vive a Darjeeling, in India, quel giorno diventa “il primo asiatico di umili origini a raggiungere fama e notorietà internazionali”. Anche il suo compagno di cordata Edmund Hillary, un neozelandese di 34 anni, diventa celebre quel giorno. La vittoria sull’Everest, a 32 anni dalla prima esplorazione del 1921, corona la spedizione di John Hunt, ed  è l’ultimo trionfo dell’Impero Britannico.

Al giorno d’oggi, a maggio, il Colle Sud dell’Everest viene visitato da centinaia di alpinisti e di sherpa. Tra il ghiaccio e le pietre del pianoro spiccano i colori vivaci delle tende, affiancati da cumuli di corde, viveri e bombole d’ossigeno. La folla riduce l’atmosfera opprimente del luogo. La piramide sommitale dell’Everest, che incombe sul Colle e le tende, ricorda agli aspiranti alla cima che la vittoria è ancora lontana, e che da qui in poi si rischia davvero la vita.

Il 25 maggio 1953, quando John Hunt arriva sul Colle, ha una sensazione sgradevole. “Era il luogo più lugubre e desolato che avessi mai immaginato di vedere. Il vento accresce la sensazione di desolazione. Tra le pietre comparivano macchie arancioni, i resti delle tende svizzere, fatte a pezzi dal vento. La sensazione, a causa dell’arrivo in discesa, era di entrare in una trappola” scriverà nel suo La conquista dell’Everest.
Quel giorno iniziano i tentativi per conquistare la cima. John Hunt, come durante la guerra, vuole comandare dalla prima linea. È il più anziano del gruppo, fatica, ma risale la parete del Lhotse con gli sherpa Ang Tenzing e Da Namgyal, scavalca lo Sperone dei Ginevrini e scende nella desolazione del Colle. Ci sono anche Tom Bourdillon e Charles Evans, la prima cordata che punta alla cima del Big E.

Il 26 maggio il tempo è bello, e alle 7.30 i due britannici partono. Seguono Hunt e Da Namgyal che portano dei carichi per il secondo tentativo, li sorpassano e continuano verso l’alto. Hanno i respiratori a circuito chiuso, più problematici dal punto di vista tecnico, devono affrontare quasi 900 metri di dislivello.
Alle 13 Evans e Bourdillon sono i primi uomini a calcare la Cima Sud dell’Everest, 8760 metri, un record destinato a durare tre giorni. Vorrebbero proseguire, ma la cresta davanti ai due alpinisti è difficile, e l’ossigeno nelle bombole è poco. Evans dice che serviranno “tre ore per salire, e due per scendere”. A quel punto le bombole saranno vuote da tempo, e la morte sarebbe sicura.
Per scendere, i due impiegano quattro ore, e nel tratto più ripido Evans scivola e viene bloccato dal compagno. Per raggiungere in piano le tende barcollano come ubriachi. L’indomani Bourdillon ha bisogno di aiuto e Hunt, che vorrebbe restare per seguire il secondo tentativo, deve accompagnare lui ed Evans insieme allo sherpa Ang Temba. Sulla parete del Lhotse, i quattro incrociano il team del secondo tentativo.

Alle 8.45 del 28 maggio George Lowe, Alfred Gregory e Ang Nyima partono dal Colle Sud per attrezzare l’ultimo campo. Edmund Hillary e Tenzing Norgay li seguono cercando di risparmiare le forze, sfruttando “la fantastica scalinata scavata nella neve e nel ghiaccio da Lowe”. Presso i resti del campo svizzero del 1952 gli alpinisti aggiungono agli zaini la tenda, l’ossigeno e il cibo lasciati da Hunt e Da Namgyal. Il carico sale a 15 chili a testa.
Alle 14.30 Tenzing raggiunge una conca affiancata da un masso, a 8500 metri di quota. Lowe, Gregory e Ang Nyima lasciano i carichi, salutano gli altri e scendono, Hillary e Tenzing tagliano con le piccozze una piazzola per la tenda, poi la sistemano su “due terrazzini pianeggianti larghi circa un metro, separati da un gradino di trenta centimetri”. Accendono il fornello, e iniziano a sciogliere neve.
Di notte la temperatura scende a 27 gradi sottozero ma i due, grazie all’ossigeno, riescono a sonnecchiare. Poi arriva il momento di partire per la cima e la gloria. Per prepararsi occorrono due ore e mezza, poi un ripido e pericoloso pendio di neve li porta sulla Cima Sud. Da qui il neozelandese e lo sherpa affrontano la cresta di neve e ghiaccio più alta della Terra.
I due si alternano in testa, tagliando con le piccozze dei gradini nel pendio che s’inabissa verso il Nepal, ed evitando le cornici nevose che si protendono verso il Tibet. Il ghiaccio che intasa il respiratore di Tenzing, costringe a una sosta per toglierlo. L’ultimo ostacolo è un salto verticale di roccia e ghiaccio, alto una dozzina di metri. Hillary lo affronta incastrandosi nella fessura che separa la roccia dalla cornice di neve che si protende verso la parete Sud-ovest.

Al termine del passaggio, che da allora è lo Hillary Step, il “Gradino Hillary”, una cresta di neve li conduce agli 8848 metri della cima. Sono le 11.30 e Hillary tende la mano al compagno, ma Tenzing lo abbraccia, vibrandogli grandi pacche sulla schiena.
Il neozelandese fotografa il Lhotse, il Kangchenjunga e il Makalu, e cerca tracce di George Mallory e Andrew Irvine, che sono scomparsi nel 1924 sul versante tibetano e potrebbero essere arrivati sulla cima.
Edmund scatta anche la celebre foto di Tenzing, che indossa una giacca a vento scura e dei pantaloni bianchi imbottiti, ed è legato al compagno con una corda sottile.
Ha il volto nascosto dal cappuccio, dagli occhiali da sole e dal respiratore, ma è facile capire che è felice. Non esiste, invece, una foto di Hillary sulla cima. “Tenzing non aveva una macchina fotografica, non l’avrebbe saputa usare, non mi è venuto in mente di insegnargli” confesserà il neozelandese.

La discesa fino al Colle Sud è lunga, pericolosa, estenuante. Oltre la Cima Sud, due bombole lasciate da Bourdillon ed Evans consentono di fare il pieno di ossigeno. Oltre la tenda dove i due hanno passato la notte, il vento ha cancellato i gradini, e per scendere in sicurezza occorre scavarne con infinita fatica dei nuovi. Sul Colle i due vengono raggiunti da George Lowe, che ha un thermos di minestra calda. “We knocked the bastard off!”, “Abbiamo buttato giù il bastardo!” gli urla il suo amico Hillary.
Per sapere della vittoria, gli altri alpinisti, riuniti al campo-base avanzato, devono attendere il giorno dopo, quando la comitiva che scende dalla parete del Lhotse inizia a urlare e a esultare. Poi James Morris, il corrispondente del Times, riesce in un exploit che entra nella storia del giornalismo.
Scrive un messaggio, lo affida a un runner, un messaggero che corre sul sentiero che collega il campo-base a Namche Bazaar, dove funziona l’unica radio della regione. Il Times ha pagato a caro prezzo l’esclusiva sulla spedizione, e un messaggio trasmesso in chiaro potrebbe essere captato da chiunque.

Quello di Morris recita “condizioni neve cattive stop, base avanzata abbandonata ieri stop, attendiamo miglioramenti”. Quando viene decifrato in redazione, però, il significato è diverso. “Vetta raggiunta il 29 maggio da Hillary e Tenzing”. Il 2 giugno, mentre il corteo per l’incoronazione di Elisabetta II percorre le strade di Londra, gli strilloni del Times e gli altoparlanti annunciano che l’Everest è stato salito ai tre milioni di persone che assistono alla cerimonia.
La gioia, però, non coinvolge soltanto i sudditi di Sua Maestà Britannica. In un mondo ferito dalla guerra più sanguinosa della storia, una grande vittoria di pace desta uno straordinario entusiasmo. A Kathmandu e a Delhi, a Parigi e a Roma, persino al Cairo dove fa scalo il volo del ritorno, Hillary, Tenzing e Hunt passano da una celebrazione all’altra. L’epopea del “Terzo Polo” è finita.

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