Storia dell'alpinismo

30 anni senza Gian Carlo Grassi, il Peter Pan dell’alpinismo

“La sua scomparsa ha lasciato tanti orfani. Gian Carlo era come una sorgente di luce creativa che ha illuminato un’epoca, quando è morto tanti sono rimasti sgomenti”. A dirlo è Roberto Mantovani, giornalista, storico d’alpinismo, ma soprattutto amico di Gian Carlo Grassi, di cui ricorre oggi il trentennale della scomparsa. “Ha sempre vissuto inseguendo una passione inesauribile” spiega un altro amico, lo scrittore Enrico Camanni. “Anche a 40 anni vedeva meraviglia nella montagna, era Peter Pan”.

La figura di Gian Carlo Grassi non ha mai affollato le riviste patinate, ma ha riempito la montagna e suoi appassionati. Nella seconda metà del Novecento ha segnato un periodo, distinguendosi come uno dei più forti del tempo. Oggi il suo nome riporta ai couloir fantasma, agli arditi e fantasiosi itinerari su ghiaccio. Amante dell’avventura a tutto tondo trovava soddisfazione sia nella scalata delle difficili goulotte del Monte Bianco, come sui massi della sua Valle di Susa. “La via difficile era al pari del masso di fronte casa, non riusciva a porre le esperienze su diverse scale di valori” ricorda Camanni. “La sua vera ricerca stava nell’assimilazione delle esperienze” interviene Mantovani. “Non è mai stato attratto dalla prestazione o dal grado. Inseguiva esperienze con spirito esplorativo e voglia di sperimentare”. Ecco allora che arriva Yosemite, le arrampicate nel deserto e nel sud dell’India. Luoghi estranei alle classiche rotte alpinistiche.

Dalla Gervasutti all’indipendenza alpinistica

Allievo della Scuola Nazionale di Alpinismo Giusto Gervasutti nel 1968 diviene istruttore, ma nel giro di pochi anni lascia quell’ambiente al tempo fatto di ordine e rigore, due modi d’essere che poco avevano a che fare con Grassi. Della Gerva, come la chiamano i torinesi, Grassi conserva le amicizie, quelle che nascono legandosi in cordata, come il rapporto con Gian Piero Motti. Nei primi anni Settanta l’attività di Grassi si intensifica, sulle Alpi sale il Pilier Gervasutti e poi la Walker alle Grandes Jorasses, ma a dare una vera svolta alla sua vita, consegnandolo per sempre alla montagna, è un evento per nulla piacevole. Una malattia polmonare lo colpisce nel 1972 costringendolo a mesi di sanatorio, ma offrendogli all’uscita la possibilità di un sussidio di 60mila lire al mese per sei mesi. Una volta tornato a casa lascia il lavoro per dedicarsi alla montagna a tempo pieno. Un periodo intenso, che lo vede fare qualche lavoro saltuario e seguire il corso guide. Sempre in questo periodo lo scalatore torinese inizia ad acquisire una nuova consapevolezza e voglia di emergere. Il timido Calimero, com’era soprannominato tra le fila della Gervasutti, stava diventando il Maestro. Al suo fianco giovani ragazzi, talenti emergenti (tra cui Danilo Galante) dell’alpinismo degli anni Settanta e Ottanta. “In realtà – ci confida l’amico Elio Bonfantitutti hanno sempre confuso il soprannome Calimero con l’idea del pulcino sfigato. Nella realtà quel soprannome gliel’ha affibbiato Gian Piero Motti ai piedi del Castello Provenzale, in Val Maira, dopo un bivacco. Quando l’ha visto sbucare dal sacco a pelo con il suo casco bianco in testa, pantaloni neri, calzettoni gialli e pieno delle pime del sacco ha esclamato: sembri proprio Calimero!”.

L’intuizione del ghiaccio

La crescente fama, mai estremizzata, porta Grassi sulle pagine pubblicitarie di qualche rivista, ma questo non intacca la sua genuinità. “Gian Carlo non era un animale da palcoscenico” racconta Camanni. “Trascorrere del tempo con lui era sempre molto interessante perché ti dedicava molto, anche se era difficile stargli dietro”. Grassi “non inseguiva le mode, i fenomeni” aggiunge Mantovani. “Alcune sue intuizioni sono state davvero interessanti, come l’individuazione dei couloir fantasma o il cascatismo”. Grassi si avvicina al ghiaccio nel 1978 percorrendo l’Ipercouloir delle Grandes Jorasses insieme all’amico Gianni Comino, compagno con cui realizza interessanti prime ascensioni nel gruppo del Bianco. “Gian Carlo è stato un grande ricercatore, un esploratore straordinario capace di riportare in auge montagne toccate dagli alpinisti dell’Ottocento e poi dimenticate”.

Il ghiaccio segna un periodo importante della storia di Grassi. È uno dei primi italiani ad avvicinarlo, a cogliere le potenzialità di quelle effimere colate ghiacciate che in inverno trasformano le valli. È sufficiente prendere in mano una guida alle valli di Cogne per comprendere la portata di quanto realizzato. Alcune delle linee più dure degli anni a cavallo tra Ottanta e Novanta sono sue, tra queste spicca la contesa Repentance Super al tempo la cascata più difficile della Valle d’Aosta. “Ha sempre tenuto le cascate lontane dall’alpinismo, non le ha mai vissute come un’attività propedeutica alla scalata in montagna” evidenzia Mantovani.

Instancabile ricercatore, attivissimo apritore e risolutore di problemi, non me lo vedevo a invecchiare. Non perché cercasse rischi inutili, ma perché la sua vita era immaginazione, era azione” ricorda Camanni tornando a quel primo aprile del 1991, quello che l’ha tradito.

Gian Carlo Gassi era in Appennino, sul Monte Bove, impegnato su una cascata di ghiaccio. Non era nei suoi piani, era in vacanza con la famiglia, non aveva nemmeno l’attrezzatura con se. Ma si sa quanto il desiderio e l’attrazione per quelle effimere strisce ghiacciate fosse forte in lui.

È successo tutto in fretta. La discesa nella nebbia, il piede in fallo su una cornice, il distacco, il volo. Gli amici che gli vanno incontro, lo trovano ancora vivo. Il rapido trasporto all’ospedale di Camerino, la morte. “Gian Carlo viveva della sua passione per la passione, non per finire sui giornali” rammenta Mantovani. “Aveva una visione e cercava di trasmetterla. Non era un ossessionato, ma coltivava una passione bruciante”. È morto di lunedì, per un banale incidente, a soli 44 anni.

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4 Commenti

  1. A me piaceva la sua natura in continua irrefrenabile attività, talvolta mi spaventava, altre la invidiavo.
    Oggi uomini così non li incontro quasi più.

  2. Oggi nell’era di Facebook non si va in montagna “per vivere la passione per la passione “, si va per esibire le proprie miserevoli performance, i propri inutili profili (nel vero senso fisico)

  3. Lo incontrai una sola volta, davanti alla cabina della funivia del M. Bianco, fuori dal rifugio Torino: era un meraviglioso pomeriggio di inizio estate. Con il mio compagno tornavamo dalla Nord della Tour Ronde e incrociammo questo campione, ci salutammo, come compagni di avventure diverse che per noi a quell’ora finiva e per lui stava per cominciare, sicuramente molto più impegnativa della nostra; ma fu un’immediata intesa, per una visione che ognuno secondo le proprie capacità stava perseguendo.
    Lessi di lui tutto quanto fosse disponibile sulla Rivista della Montagna ed altri bollettini, mai troppo in verità.
    E’ stato un grande esempio di uomo di montagna per amore della montagna e non della sua immagine. Ormai ne nascono pochi fatti così.

  4. Nelle fotografie allegate all’articolo la numero 7 rappresenta l’essenza dell’alpinismo che ormai non esiste più….Grassi,Casarotto,Comino, Alpinisti ma sopratutto grandissime Persone,umili,schivi,ma di una forza interiore che al giorno d’oggi non esiste più,è vero i tempi son cambiati purtroppo!!!
    Ormai è tutto basato sui social,importante avere follower…invece loro ricercavano lo spirito della montagna,il suo silenzio,le vie più nascoste…ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Casarotto in una sua serata e quella stretta di mano la sento ancora oggi…ho tutti i numeri della rivista della montagna che parla di Grassi…non ho mai salito le sue linee,ma all’epoca ho salito le cascate leggendo molto sullatecnica che usava…

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