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10 marzo 1953. La camminata verso est e la radio segreta di Namche

Terza puntata dello Speciale "Everest 1953"

Il 10 marzo del 1953 la spedizione britannica all’Everest lascia la valle di Kathmandu. Quindici giorni dopo, la prima parte degli alpinisti e dei portatori carichi arriva a Namche Bazar, 3400 metri, la “capitale” degli Sherpa. Nelle prime due puntate della storia di questa straordinaria avventura vi abbiamo raccontato del viaggio in nave (e per qualcuno in aereo) da Londra e dalla Nuova Zelanda fino all’India, e poi dell’arrivo a Kathmandu, la misteriosa capitale del Nepal. Ora vi raccontiamo con le parole di John Hunt, di Tenzing e del giornalista James Morris, inviato del Times, la lunga, magnifica marcia in direzione del Khumbu, la terra degli Sherpa. Un viaggio destinato a diventare di moda, che ha un padre, Jimmy Roberts, e che oggi si chiama trekking. 

Nella storia del Nepal moderno il colonnello James Roberts, “Jimmy” sui giornali e sui libri, merita uno spazio importante. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, questo ufficiale britannico nato in India, e che ha iniziato a percorrere l’Himalaya e il Karakorum a vent’anni, diventa un organizzatore straordinario. Inizia arruolando portatori per le spedizioni alpinistiche, prosegue con gruppi di camminatori che vanno ad ammirare le cime. Se si pensa ai contadini e ai montanari del Nepal, che in quegli anni si spostano solo a piedi, la definizione che sto per dare fa sorridere. Pure, per gli escursionisti, che iniziano ad arrivare in quegli anni dall’Europa e dal Nordamerica, il colonnello Roberts è il padre del trekking, l’uomo che inventa un nuovo tipo di turismo. Mountain Travel, l’agenzia che fonda nel 1964, è la madre delle centinaia di agenzie che organizzano oggi camminate in Nepal, ma anche in Pakistan e India.

Nel 1953, in realtà, Jimmy Roberts è un alpinista frustrato. Le sue spedizioni precedenti (il Masherbrum nel 1938, l’Annapurna IV nel 1950) non riescono a farlo inserire nel team dell’Everest. Anche il suo curriculum di coraggioso ufficiale dei Gurkha, e i suoi lanci con il paracadute nelle giungle della Birmania controllata dai Giapponesi, non servono a cambiare le cose. Ma Hunt si fida di Roberts. Prima di lasciare Kathmandu, durante le discussioni con gli Sherpa, gli affida un compito umile ma decisivo. Accompagnare di persona fino al Khumbu, evitando ogni tipo di danni, un centinaio di bombole di ossigeno che arrivano nella capitale dopo la partenza della spedizione. Jimmy accetta, resta in città, accoglie James Morris, il corrispondente del Times che lo paragona a un “orso intelligente”. Poi insieme al giornalista arrivato da Londra e a settanta portatori si mette in cammino a sua volta. Dopo aver consegnato a Hunt le bombole, mentre la spedizione sarà impegnata sull’Everest, Roberts esplorerà tre valli sconosciute, compiendo la prima ascensione del Mera, una cima di 6476 metri.

Morris dal campo-base dell’Everest dovrà inviare a Londra articoli che parlano di valanghe e crepacci, di mal di montagna e maltempo, dei campi piazzati sulla montagna e dei problemi tra i componenti della squadra. Prima di partire, e durante i 250 chilometri a piedi, si sente in vacanza, e descrive i luoghi attraversati e le atmosfere del trekking. La camminata inizia da Bhadgaon (o Bhaktapur), nella valle di Kathmandu, una città di “atmosfere medievali”, di “strade strette e tortuose”, di templi decorati con “topi, orsi e scimmie, giganti leggendari, elefanti, simboli cabalistici e dei”. Nel trek le giornate iniziano con uno Sherpa che porge una tazza di tè al suo sahib, e proseguono con un sontuoso breakfast, con tratti faticosi seguiti da pigre soste al sole, da incontri con “il costante flusso di traffico a piedi in viaggio da e per Kathmandu”.  Poi i saliscendi diventano più marcati, i templi buddhisti prendono il posto di quelli hindu, e un “ponte traballante sulle acque tumultuose della Dudh Kosi” porta la comitiva nel Khumbu, la terra degli Sherpa.

Per John Hunt il clima è diverso. Il suo compito è di organizzare la partenza, finire di arruolare gli Sherpa, controllare che tutto funzioni, non perdere nemmeno un’ora di tempo. Il 10 marzo, quando parte a piedi il primo gruppo di alpinisti, accompagnato da Tenzing e da 350 portatori, Hunt resta a Bhaktapur per vigilare sul secondo. L’11 si incammina a sua volta, poi accelera e raggiunge la squadra di testa. Per Hunt, come la navigazione da Londra, il trekking da Kathmandu verso il Khumbu è un’occasione per quello che oggi chiamiamo team-building. Quando Tom Bourdillon gli confida “che gruppo felice sei riuscito a mettere insieme!” il colonnello è felice. “La tristezza degli alpinisti che erano stati in spedizione con Shipton era stata messa da parte, e stavamo diventando un gruppo unito e soddisfatto, anche se eravamo il doppio del team che Eric avrebbe voluto” annoterà Hunt. “Tutti noi preferiamo arrampicare con piccoli gruppi di amici. Ma questa non era un’ascensione normale. In quel momento, l’Everest era molto più di una montagna”.

“Lascerei volentieri scorrere la mia penna con il ritmo pigro dei nostri passi. Ma il tempo e lo spazio che mi sono assegnati sono scarsi, e il lettore dovrà seguirmi a un ritmo più veloce” racconta Hunt ne La conquista dell’Everest, il resoconto della spedizione. In Italia esce nel 1954. Lo pubblica l’editore Leonardo Da Vinci di Bari, la traduzione è di Donato Barbone, la revisione alpinistica (una spesa che molti editori di oggi trascurano!) di Pietro Meciani, un esperto alpinista milanese. Le pagine che Hunt dedica al trekking sono piene di sorrisi e bellezza. Il colonnello racconta il “lungo viaggio verso est”, gli incontri con “le ragazze ornate da vivaci orecchini”, il “profumo intenso dei fiori di magnolia” nei boschi, i “metodi per coltivare patate simili a quelli dei contadini del Galles”, i valichi che regalano panorami via via più ampi. La prima grande vetta a comparire è il Gaurishankar, 7134 metri. Nel trekking, per abituarsi, gli alpinisti camminano per ore indossando le maschere per l’ossigeno, e si stupiscono nel trovarle poco o nulla fastidiose. Gli uomini del secondo gruppo vengono invece sottoposti a “ogni genere di esperimenti e torture” dal fisiologo Griffith Pugh, che traversa il Nepal indossando “un pigiama, un paio di occhiali da sole e un berretto da cacciatore”.

Poi, oltre la Dudh Kosi, tutto cambia. “Di colpo mutò la fisionomia del paesaggio e degli abitanti. I fianchi delle montagne divennero più ripidi e aridi, le colture più frammentarie, i casolari più dispersi. Lo scenario divenne più alpino, e poi sempre più himalayano. Eravamo nella terra degli Sherpa!” scrive Hunt. Il 25 marzo, finalmente, il primo gruppo risale “il largo sentiero che porta a Namche Bazar” in mezzo a “un grande viavai di gente allegra”. Dal ponte che scavalca l’Imja Khola compare finalmente l’Everest, che sbuca dietro al Lhotse e al Nuptse. “Trovarci ai piedi della grande montagna ci mise di buon umore” racconta Hunt prima si assaggiare il tè tibetano (con burro e sale) e il chang, la birra di riso offerta da un gruppo di Sherpa all’arrivo nel villaggio. L’accoglienza della gente di Namche è genuina, e gli Sherpa della spedizione vengono accolti dalle loro famiglie. “Mia madre e altri parenti scesero da Thame per salutarmi” annota Tenzing, lo Sherpa che arriverà sulla cima, nel suo Man of Everest scritto con James Ramsey Ullman. Ma non c’è tempo per fermarsi per più di una notte, e l’indomani si riparte per il monastero di Tengboche.

James Morris, che arriva dopo una decina di giorni, ha preoccupazioni di altro tipo. Durante il trekking ha incontrato un inviato del Daily Mail, una testata concorrente, e teme che qualcosa possa sfuggire all’esclusiva. Non sa come inviare a Kathmandu e a Londra gli articoli che scriverà via via, e soprattutto la notizia dell’agognata vittoria. Morris ha con sé il codice che ha messo a punto a Londra per spedire messaggi segreti. Il vero problema, però, è come farli partire. Invece, all’arrivo a Namche, Morris viene accolto dal signor Tiwari, un “enorme Sikh barbuto e con il turbante, avvolto in molti strati di vestiti”. E’ un funzionario di polizia indiano, guida Morris in una camminata nel paese, tra vicoli e cortili, fino a una porta dove lo attendono dei connazionali. Il giornalista sale una rampa di scale, e si trova davanti a una ricetrasmittente. Non fa in tempo a chiedersi con quale energia farla funzionare, e vede “una specie di bici senza ruote in grado di generare elettricità”. La spedizione di Hunt, Hillary e Tenzing sta arrivando ai piedi dell’Everest. E James Morris, inviato del Times, ha trovato il modo di far arrivare la sua storia nel mondo.

Qui la prima puntata. 

Qui la seconda puntata.         

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