Alpinismo

Merelli, Cho Oyu: sollievo dopo forti battaglie

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BERGAMO – “E’ bellissimo, dopo battaglie forti come al Lhotse e al Manaslu, avere una montagna che sali con serenità, dove puoi stare 3 ore in cima ad aspettare di vedere l’Everest che esce dalle nuvole”. Così Mario Merelli racconta il Cho Oyu, una delle sue spedizioni più “belle e divertenti” coronata, pochi giorni dopo, dall’inaugurazione del Kalika Family Hospital nella valle più povera del Nepal: un progetto a cui lavorava da quattro anni con Marco Zaffaroni. Ecco il racconto e le immagini di questo viaggio, con qualche anticipazione sul futuro. Dove, forse, ci sarà il K2.

Merelli, le nozze sono arrivate dopo il viaggio. Un viaggio ricco, con una cima e l’inaugurazione dell’ospedale di Kalika. Come è andata?
E’ andata bene. L’idea dell’ospedale è partita da me e Zaffa. All’inaugurazione c’eravamo noi, ma con tanti amici tra cui mia sorella, Rita Dalla Longa che ci ha aiutato a raccogliere fondi. E’ stato bello perché la gente era felice. I due giorni di festa sono stati incredibili. Ora però dovremo lavorare ancora, per dare la “botta finale” e completare l’ospedale.

E’ già attivo?
Sì l’inaugurazione è coincisa con il primo giorno di attività. Ci sono state oltre 120 visite mediche quel giorno: vuol dire che quelle persone ne avevano proprio bisogno. Di fronte a queste cose capisci che gli sforzi sono serviti, e sono stati ricevuti bene.

Prima come facevano le persone di quella valle?
Camminavano 5 giorni a piedi. Oppure 3 giorni, poi prendevano l’aereo e poi un pullman per arrivare all’ospedale. Però se stai molto male o non hai i soldi, ovviamente non riesci ad arrivarci. Il giorno dell’inaugurazione c’era una famiglia che per venire ha camminato due giorni, portandosi un pezzo di formaggio da offrirci: ci ringraziava perché adesso l’ospedale è vicino. E magari qui ci lamentiamo perché il parcheggio è di qualche minuto lontano dall’ospedale… Lì è bastato aprirlo. Aprendolo abbiamo portato l’energia elettrica fino al paese, dove mancava anni. Arrivava in un luogo che distava solo 2 ore a piedi. Ora la possono usare anche per altre cose.

Come è nato il progetto?
L’idea è nata a Kathmandu nel 2005, dopo che siamo tornati dallo Shisha. Abbiamo scelto il luogo e poi iniziato a reperire i fondi. Qui il grazie va a tutti. Alle tantissime persone che ci hanno aiutato, da associazioni a singoli, da imprese a fabbriche, che ci hanno dato una mano forte e ce la devono ancora dare perché bisogna finirlo e gestirlo nei prossimi 5 anni. L’idea è di una cessione graduale a quella che possiamo definire “l’Inps nepalese” per salvaguardare un po’ lo sforzo fatto da eventuali interessi politici. Abbiamo fatto riunioni sul posto con la gente: il sindaco, il capo della valle e il capo dei guerriglieri, perché l’ospedale è loro. Gli abbiamo promesso che, se sapranno tenerlo bene, continueremo ad aiutarli con entusiasmo finchè saremo in vita.

Che iniziative avete usato per reperire fondi?
Anziché costruire una nostra Onlus, abbiamo pensato di sentirne altre che già esistevano. Zaffa conosceva bene La Goccia, una Onlus di Senago, nel Varesotto, e nemmeno a farlo apposta della gente di quel paese era venuta in vacanza a casa mia. Ci siamo incontrati e ci siamo affidati a loro, che già aiutavano Africa e Sudamerica con la promozione di panettoni e pandori a Natale e uova e colombe a Pasqua. La prima bella fetta di contributi è arrivata proprio da questa vendita, che si ripete tra l’altro quest’anno: loro ogni anno la fanno per un progetto diverso, a rotazione. Poi le mie serate, le conferenze, le donazioni. La cosa bella, successa anche ieri, è vedere la persona che per la strada tira fuori 50, 100 o 20 euro e te li mette in tasca dicendo che è per l’ospedale.

Facciamo un passo indietro, ora. Com’è stato questo Cho Oyu?
Prima di partire avevo detto: mi aspettano un ottomila, un novemila che è l’ospedale e un diecimila che è il matrimonio. Adesso facciamo all’incontrario, dopo aver raccontato: matrimonio e l’ospedale ecco l’ottomila. E’ stata veramente una delle spedizioni più belle, dove mi son divertito davvero. Forse perché abbiamo trovato bel tempo, forse perché la montagna non è particolarmente complicata, anche se sappiamo che si può complicare tutto col brutto tempo o se non stai bene o se le condizioni non sono buone. Forse poi ci siamo divertiti anche perché eravamo solo in due, con Mireia che ci faceva da supporto logistico: una volta è venuta anche lei a campo 1, poi ci aggiornava un po’ sulle previsioni del tempo. Veramente erano un po’ discordanti… alla fine bisognava fare ancora alla vecchia maniera, metter fuori il dito e sentire che aria tirava. Però è stato bello. Stavamo bene e l’abbiamo fatta anche in fretta, dal giorno che siamo arrivati al base al giorno di cima sono passate un paio di settimane. Per un ottomila è una bella soddisfazione.

Quindi preferisci andare in Himalaya con spedizioni piccole?
Sicuramente sì. Forse sai, nella grande c’è più confusione e magari c’è il furbetto che non sta bene quando non vuol far fatica. Invece nella piccola, non scappi. Ognuno fa quello che deve e tutto va più liscio. Credo che il futuro sarà questo: non cercare grosse spedizioni ma limitare… anche i danni. Perché se prima ho detto che mi sono divertito e che la montagna è bella, dall’altro ho visto tanta pattumiera in giro. E’ forse una delle montagne più sporche che ho visto. Dispiace perché basta poco, anzi: a campo 1 si sale e si scende velocemente in scarpe da ginnastica, sarebbe veloce portare giù tutto. E invece è così sporco a campo 2 e a campo 1. Si sa che i cinesi sono un po’ permissivi in questo, ma dovrebbe essere la nostra coscienza a dire di girarsi indietro e guardare se hai pulito tutto. Non smontare una tenda pensare che poi passerà lo sherpa, che magari la lascerà lì. Questo è un piccolo rammarico.

Quanta gente c’era?
Oltre 500 alpinisti al campo base. Come all’Everest, ma là c’è ormai un certo controllo ai campi alti e anche una certa etica. Qui se ne fregano. Al base è anche abbastanza pulito, ma loro hanno i portatori tibetani molto forti, che portano in alto veramente tanta, tanta roba. Ho visto dei sacconi incredibili a campo 1: è chiaro che poi non riportano indietro tutto… avanzi di cibo, scatolette o bombole vuote restano su. L’ho detto all’ufficiale di collegamento quando mi ha chiesto della cima. Gli ho detto che mi dispiaceva per lo sporco. Ha detto che manderà qualcuno a visionare i campi alti. Speriamo.

Com’erano i rapporti fra le spedizioni?
Non ne ho avuti molti, veramente. Eravamo un bel gruppo, con due amici di Vicenza che stavano con noi al base. Ho conosciuto una spedizione spagnola e la commerciale neozelandese di cui faceva parte l’americano morto dopo la cima. Per il resto, ci si salutava e si scalava. In mezzo a così tanta gente, puoi trovare quello più simpatico e quello meno simpatico, quello generoso e quello che vuol fare il fenomeno. Ma l’importante per me è stare con gli amici e vivere bene la montagna.

Insomma niente ingorghi come all’Everest…
No, no. Nessun problema di quel genere anche se, per carità, non è mai bello vedere tutta quella gente appesa alle jumar, è pericoloso, bisognerebbe sapersi arrangiare. Il Cho Oyu è il primo ottomila per molte persone, perché è un ottomila tra virgolette tranquillo. E’ chiaro si trova tanta gente. Anche io l’ho lasciato tra gli ultimi proprio perché volevo farlo in un’occasione un po’ particolare, non dico che pensavo già alle nozze, ma sicuramente a un giro con un’amica o semplicemente da solo. Comunque secondo me, chi si lamenta degli ingorghi farebbe meglio a stare a casa. E’ inutile pensare di andare al mare ad agosto e lamentarsi del traffico… è chiaro, come vado io, vanno milioni di persone. Anzi il traffico è bello, perché vuol dire che la passione per la montagna ce l’hanno in tanti. Sono montagne simbolo, queste.

Un po’ di tranquillità, insomma, d

opo la difficile esperienza da solo sul Lhotse e dopo la perdita di un compagno al Manaslu…
Serviva qualcosa per tirar su il fiato. L’altro giorno sentivo un’intervista a Valentino Rossi, diceva che spesso dopo una brutta gara ne fa una bellissima perché gli dà la carica ritrovare una pista più adatta a lui, dove riesce bene. E’ così anche per noi: è bellissimo, dopo battaglie forti, avere una montagna che sali con serenità, dove stai 3 ore in cima, due ad aspettare lo Zaffa e una insieme ad aspettare che l’Everest uscisse dalle nuvole per portare la foto alla Hawley. Mi aveva detto che senza la foto dell’Everest non mi convalidava la cima. E’ stata la prima cosa che le ho fatto vedere. Ha riso e mi ha detto: complimenti, bravo, hai portato a casa anche questo, piano piano mi sa che li finisci. Ho risposto: sì, sì, piano… non farti sentire dalla morosa a dire che dobbiamo per forza finirli!

E la cordata con Zaffa? E’ un po’ che andate in Himalaya insieme…
Sì. Sta imparando! Questo è stato il suo primo successo pieno. E’ una persona molto preparata fisicamente, non ho vergogna a dire che forse gli manca un po’ la costante di dedicarsi all’alpinismo, per avere più confidenza coi ramponi, con la corda, i nodi. Serve, per poter aspirare a qualcosa di più impegnativo. Però è un bel compagno, perché non brontola mai, gli va sempre tutto bene… io dico che sono il capo dai 5000 in su e lui dai 5000 in giù: e non è una battuta perché se tu ti occupi di una cosa lui si occupa dell’altra. Permessi, cargo, logistica, biglietti aerei, costi, scorte di cibo: sono cose importanti, soprattutto se si è solo in due. Mi piacerebbe fare ancora qualche ottomila con lui perché li merita, è duro di capoccia. Ha avuto anche lui le brutte esperienza del Lhotse e di Giuseppe al Manaslu. Credo che adesso abbia coronato un sogno: infatti è arrivato su, si è sdraiato, piangeva. Si è commosso. Ho un’intervista dove io tengo la telecamera e a lui vengono le lacrime agli occhi. Era la prima volta che lo vedevo commuoversi, vuol dire che ci teneva davvero ad arrivare in cima. E ci è arrivato. Per cui continuerà.

Dopo questo “sospiro di sollievo” cosa ti aspetta, un ottomila difficile?
Forse, ce ne sono ancora parecchi. Non lo nascondo, c’è questo K2 che mi piacerebbe fare. Primo perché è una montagna bellissima, secondo perché dopo, non dico sia un cammino in discesa, però avrei fatto i 6 più alti. Si sente la differenza da una montagna da “ottomila-zero-qualcosa” a una di oltre 8.500 metri. Non so quando sarà.. l’anno prossimo o nel 2011, 2012, vedremo. C’è anche il GI, c’è da tornare al Dhaulagiri, al Manaslu. Vedremo un po’, sicuramente quando si fanno programmi bisogna parlarne un po’ con gli amici, non inventarti una cosa di testa tua. Vedremo insomma.

Guarda la gallery: Kalika, l’ospedale di Mario e Zaffa
Guarda la gallery: Mario e Zaffa in vetta al Cho Oyu
 

Sara Sottocornola

 
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