Storia dell'alpinismo

Everest 1973. Luci e ombre, 50 anni dopo, della prima spedizione italiana

La conca di Cervinia a novembre offre atmosfere speciali. Le piste del Plateau Rosà sono solitamente già aperte, ma il popolo degli sciatori non è ancora arrivato. Quando il tempo è sereno il Cervino, incrostato di neve e di ghiaccio, offre uno spettacolo straordinario. Un giorno di novembre del 1972, cinquant’anni fa, un gruppo di alpinisti, militari e ricercatori italiani si incontra nella località valdostana. Non sono lì per sciare né per salire il Cervino, il loro obiettivo è una vetta più alta e lontana. I 63 componenti del gruppo (53 militari e 10 civili) stanno preparando la prima spedizione italiana all’Everest, la vetta più alta della Terra. Molti si incontrano per la prima volta. Nei successivi sei mesi resteranno insieme a lungo.

La spedizione del 1973 all’Everest, che il 5 e il 7 maggio porta a 8848 metri cinque alpinisti italiani e tre nepalesi (uno di loro, Syambu Tamang, è il primo non di etnia Sherpa a raggiungere la cima), viene ricordata di rado, e per vari motivi. E’ una spedizione pesante, con 63 partecipanti italiani e 80 Sherpa d’alta quota. Per portare i carichi da Lukla al campo-base lavorano 2.000 portatori e oltre 200 yak.

Nel 1973 sono passati vent’anni dall’ascensione di Hillary e Tenzing, e l’alpinismo sull’Everest sta facendo un grande balzo in avanti. Nel 1971 è stata tentata per la prima volta la gigantesca parete Sud-ovest, che verrà vinta da Chris Bonington e compagni quattro anni dopo. Nel 1975 la cinese Junko Tabei e la tibetana Phantog sono le prime due donne sulla cima. Nel 1978 Reinhold Messner e Peter Habeler raggiungono la vetta senza respiratori e bombole.

Il problema di immagine della spedizione italiana del 1973 ha un motivo diverso. Oltre a uomini, viveri e materiale, gli Hercules dell’Aeronautica Militare che decollano dall’aeroporto di Cameri portano in Nepal due elicotteri Agusta Bell 205, che vengono usati per trasportare materiali, e in due casi per evacuare degli alpinisti malati. Uno dei due, pilotato dal sergente maggiore Nicola Paludi, stabilisce un record mondiale atterrando a 6400 metri di quota. Qualche giorno dopo, senza danni al pilota, l’elicottero si schianta e viene abbandonato sul ghiacciaio. Edmund Hillary, che in quei giorni è nel Khumbu, commenta che “si tratta di un’esercitazione militare” e che non ha nulla a che fare con l’alpinismo. Il capospedizione Guido Monzino risponde insultando il conquistatore dell’Everest, una notizia che fa il giro del mondo. Le scuse ufficiali italiane arriveranno solo nel 1993.

Chi era Guido Monzino

La prima spedizione italiana all’Everest, invece, merita di essere ricordata. Bene ha fatto il Club Alpino Italiano a celebrarla sul bollino del 2023, che nelle prossime settimane verrà incollato sulle tessere dei suoi 300.000 e più soci. Prima degli altri, dev’essere ricordato Guido Monzino. Questo ricco imprenditore milanese, patron dei grandi magazzini Standa, ha un ruolo nella storia dell’alpinismo italiano perché organizza e finanzia 21 (quella sull’Everest è l’ultima) spedizioni. Mario Fossati, nel necrologio che esce nel 1988 su Repubblica, lo definisce “milanese fino al midollo delle ossa”, “capace di affermare che la sola forma di riposo è il lavoro”. Claudio Smiraglia e Guglielmina Diolaiuti, che scrivono di Monzino sul Dizionario degli Italiani della Treccani, raccontano “un uomo che rincorre mete sempre più lontane, animato non solo da uno spirito romantico di avventura e di conoscenza, ma anche dal desiderio di riportare l’Italia ai vertici dell’esplorazione”.

Monzino scopre la montagna tardi, salendo il Cervino con Achille Compagnoni, il primo salitore del K2. Da allora, per il Dizionario, il suo “principale scopo di vita divenne inserirsi nel filone delle grandi spedizioni esplorative”. Il suo “modello ideale”, ovviamente, è il Duca degli Abruzzi.

La spedizione del 1973

Non è facile documentarsi sulla spedizione del 1973. L’elegante volume ufficiale della spedizione si trova solo nelle librerie antiquarie. I partecipanti, quasi tutti militari, scrivono poco o nulla. L’unica fonte di informazioni è il documentario Everest ’73, curato da Gianfranco Ialongo per la Sede RAI della Valle d’Aosta nel 2013. Alle immagini girate durante la spedizione, Ialongo affianca le interviste con due ufficiali, i generali Roberto Stella e Alessandro Molinari, che nel 1973 erano entrambi capitani, e con tre dei cinque alpinisti (Rinaldo Carrel, Virginio Epis e Claudio Benedetti) che sono arrivati sulla cima. Le polemiche sugli elicotteri entrano di sfuggita nel racconto. Il documentario, interessante nonostante il tono ufficiale, inizia raccontando che Monzino, non avendo trovato l’appoggio di nessun ente civile “offre l’Everest ai giovani di tutte le scuole militari italiane, e in particolare alla Scuola Militare Alpina di Aosta”.

Si prosegue con la preparazione del materiale, con la selezione dei partecipanti, e con la scelta di collaborare con l’Istituto di Fisiologia d’Alta Quota dell’Università di Milano e con il professor Paolo Cerretelli, che va in Nepal con alcuni assistenti. C’è lo sciopero dei 2.000 portatori, che viene aggirato inviando gli elicotteri a cercare dei sostituti nelle altre valli del Khumbu. Il pathos, com’è ovvio, si concentra nei giorni della vetta. Rinaldo Carrel, guida di Valtournenche che nel 1973 ha solo 21 anni, racconta la bufera che lo blocca insieme a Minuzzo, Lhakpa e Syambu al Colle Sud per tre giorni e tre notti, e poi la salita alla vetta per una cresta stracarica di neve.

Virginio Epis, all’epoca maresciallo istruttore della Scuola Militare Alpina, racconta della difficoltà nel superare l’Hillary Step in arrampicata, perché allora le corde fisse non c’erano. Claudio Benedetti, suo collega, racconta di aver saputo di essere stato inserito nella seconda squadra per la vetta quando era sulla parete del Lhotse, e di aver corso per raggiungere Epis, Benedetti, il capitano Innamorati e Sonam Gyalchhen Sherpa. Il generale Molinari racconta di essersi commosso per aver accompagnato Monzino dal re del Nepal. Il suo parigrado Stella sostiene che è stato un errore chiudere la spedizione dopo il secondo successo, perché “saremmo potuti arrivare in cima in 20 o in 25, e saremmo entrati nella storia”.

Il 5 maggio, quando la prima cordata arriva in vetta, il ghiacciaio del Khumbu è nascosto dalle nuvole, e nel panorama spicca il Makalu “a portata di mano e meraviglioso”, come ricorda commosso Carrel.  Il 7, quando tocca alla seconda squadra, il tempo è incerto, e dopo qualche foto Epis invita gli altri a ripartire. Sull’Hillary Step Benedetti esaurisce l’ossigeno, si blocca, e Virginio Epis lo salva passandogli per un momento il suo boccaglio. Il ritorno verso Lukla e Kathmandu non ha storia.

Conclude il documentario qualche fotografia in bianco e nero degli alpinisti che vengono ricevuti al Quirinale dal presidente Giovanni Leone e in Vaticano da papa Paolo VI, e partecipano il 2 giugno alla sfilata sui Fori Imperiali di Roma. Immagini che oggi sembrano antiche, ma che è interessante vedere.

Il documentario

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4 Commenti

  1. Ricordo che Mario Dotti mi diceva di aver dovuto firmare come militare per partecipare, perché bisognava ubbidire e si veniva anche pagati..
    …….Pierino Nava comandava la parte alpinistica……..
    ……..Monzino si era fatto portare il suo letto al CB………
    ……..Tanti soldi con tanto orgoglio e pochissimo spirito alpinistico………
    Non ho mai sentito parlare bene di questa gigantesca spedizione.
    A proposito, l’elicottero caduto in alto forse è stato recuperato e forse siamo stati i primi ad usarli !?!?!?

  2. quando Bonatti nel 1955 cercava finanziamenti per la sua solitaria al K2 trovo’ solo porte chiuse. Poi sbattiamo via miliardi per fare ste porcate – non a caso Monzino era amico di Compagnoni, un personaggio che ha solo disonorato l’alpinismo.

    1. No, dai, anche Compagnoni ha fatto qualcosina e Monzino ha speso tanti suoi soldi per varie iniziative come il suo rifugio vicino alla Noire.
      L’alpinismo italiano è quasi tutto così, molto pubblicizzato e spettacolarizzato con divi e premi (premi sempre solo italiani)…. ma con tante frottole per spettatori ignoranti…. un po’ come i programmi dove due nudi, o delle belle ragazze in tiro, o uomini “cazzuti” si “avventurano” nel mondo selvaggio, ma con personale cinematografico e di supporto sempre vicina.
      Pensa alla spedizione per il cinquantenario del K2 che ha salito le normali 🙂
      Ma c’è anche l’alpinismo serio e sempre agli alti livelli mondiali, non si dice mai al pubblico italiano.

  3. Everest 73, spedizione gigantesca, assurda e costosissima, sponsorizzata da G.Monzino, alpinista ed esploratore di gran censo, e guidata dai militari. Ormai non la ricorda più nessuno! Al contrario della spedizione americana del 63: traversata parete ovest/ parete sud, impresa grandiosa! Gli studi di fisiologia del Prof. Marcaria effettuati nel 73, furono clamorosamente smentiti nel 78, soltanto cinque anni più tardi, dalla coppia, salita in stile alpino, Messner-Habeler. Secondo quegli studi, a quelle quote, l’organismo umano, non avrebbe retto; in parole povere sarebbero morti. Assai vicini agli 80 anni, i due fantastici alpinisti sono vispi e lucidi ed è probabilmente per merito loro se l’alpinismo delle altissime quote si è sviluppato in maniera inimmaginabile.
    P.S. Con i mezzi messi a disposizione da G. Monzino, si sarebbe potuto salire tranquillamente, Everest e Lhotse. Sic.!

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