Ambiente

Il Piemonte perde un ghiacciaio, declassato il Coolidge del Monviso

Un ghiacciaio è per definizione una sistema dinamico, caratterizzato dalla presenza a monte di un bacino collettore, la zona di alimentazione in cui si va ad accumulare neve che si trasformerà in parte in nuovo ghiaccio, e una zona a valle che è il bacino ablatore, dove il ghiacciaio “perde” parte della sua massa, per effetto di fusione, sublimazione o anche crolli. Per effetto della gravità la massa glaciale scivola lentamente dal bacino collettore verso quello ablatore e finché ghiaccio a monte continua a formarsi compensando le perdite a valle, il ghiacciaio potremmo dire che sia in salute. Qualora le perdite non siano più controbilanciate dall’alimentazione, il corpo glaciale inizia un percorso in discesa, che lo vedrà perdere massa. Diminuiscono sia gli spessori che l’estensione areale, con conseguente accentuato arretramento della fronte e smembramento dei corpi glaciali. In questo percorso di progressiva scomparsa, i ghiacciai montani possono perdere l’etichetta di “ghiacciaio” ed evolvere a una categoria definita “glacionevato”.

Una definizione sommaria di glacionevato, prendendo in prestito una citazione dell’illustre geologo Franco Secchieri, può essere quella di “massa più o meno omogenea e compatta costituita da nevato e/o ghiaccio, di estensione e forma varie, che permane per due o più anni consecutivi e non dotata di movimento. Quello che era un ghiacciaio, in crescita e in movimento, non cresce e non si muove più. Il glacionevato più famoso d’Italia è rappresentato dal Calderone del Gran Sasso, che comunemente si continua a citare come “unico ghiacciaio appenninico”, ma non lo è più. In conseguenza dei cambiamenti climatici dovremo abituarci a vedere comparire nella categoria dei glacionevati un crescente numero di ghiacciai alpini. Di recente tale etichetta è stata assegnata al Coolidge del Monviso.

Cosa è successo al Coolidge?

Nei mesi scorsi l’Arpa Piemonte si è attivata in una analisi preliminare dello stato di salute dei principali ghiacciai piemontesi. Uno studio che oltre a fornire una panoramica interessante dal punto di vista scientifico, in quanto ci racconta come stiano reagendo le masse glaciali ai cambiamenti climatici, diventa un importante strumento per valutare potenziali rischi legati alla frequentazione della montagna.

“Il settore occidentale delle Alpi, che include i territori di Piemonte e Valle d’Aosta, conserva ad oggi circa 300 ghiacciai con una superficie complessiva di 160 km2 si legge nella relazione completa, scaricabile dal sito dell’Arpa Piemonte – . I ghiacciai del settore alpino occidentale sono per lo più di piccole o piccolissime dimensioni (circa l’80% ha una superficie inferiore a 0.5 km2) e molti di essi (in particolare in Piemonte) possono ormai essere considerati glacionevati, piuttosto che veri e propri ghiacciai. Rispetto al catasto realizzato dal Comitato Glaciologico Italiano in occasione dell’Anno Geofisico Internazionale del 1957-1958, la perdita di superficie glaciale in Piemonte è stata imponente ed ha raggiunto nel 2020 il -48% (dati dal Report della Carovana dei Ghiacciai, 2020).”

“I ghiacciai possono essere definiti “sentinelle” del cambiamento climatico in alta quota […] . La rapida alterazione della geometria glaciale, legata a fattori meteo-climatici (temperatura e precipitazioni) e alla morfologia del ghiacciaio stesso, associata alla presenza antropica determina un aumento del rischio glaciale. I principali rischi di origine glaciale derivano dal collasso di ghiacciai temperati, dal rilascio improvviso di acqua accumulata nei ghiacciai stessi e dal crollo di seracchi.”

Su tale base sono stati analizzati 22 ghiacciai, la cui scelta è stata determinata dall’analisi storica dei principali eventi che hanno interessato in passato i versanti piemontesi ed è stata anche influenzata dalla frequentazione attuale da parte di alpinisti, sci-alpinisti ed escursionisti:

  1. Sabbione Nord (Formazza, VB)
  2. Sabbione Sud (Formazza, VB)
  3. Aurona – Monte Leone (Varzo, VB)
  4. Piccolo Fillar (Macugnaga, VB)
  5. Belvedere – Monte Rosa (Macugnaga, VB)
  6. Signal (Macugnaga, VB)
  7. Locce Nord (Macugnaga, VB)
  8. Sesia-Vigne (Alagna Valsesia, VC)
  9. Piode (Alagna Valsesia, VC)
  10. Bors (Alagna Valsesia, VC)
  11. Roccia Viva (Locana, TO)
  12. Noaschetta Est (Noasca, TO)
  13. Noaschetta Ovest (Noasca, TO)
  14. Basei (Ceresole Reale, TO)
  15. Carro Ovest (Ceresole Reale, TO)
  16. Nel (Ceresole Reale, TO)
  17. Mulinet Sud (Groscavallo, TO)
  18. Sea (Groscavallo, TO)
  19. Ciamarella (Balme, TO)
  20. Bessanese (Balme, TO)
  21. Croce Rossa (Usseglio, TO)
  22. Coolidge (Crissolo, CN)

La metodologia di indagine utilizzata è consistita principalmente nella tecnica della fotointerpretazione delle ortofoto AGEA del 2018, talvolta confrontate con altre immagini disponibili per le zone di interesse, qualora disponibili. Al termine dell’analisi è risultato evidente che il Coolidge non si possa più considerare integralmente ghiacciaio.

“Il ghiacciaio Coolidge si suddivide in due sezioni – si legge nella tabella descrittiva – . Quella superiore è stata interessata da un crollo nell’estate del 1989 ed ora è ridotta ad un glacionevato. La sezione inferiore è incanalata nell’incisione ed alimentata dalle valanghe e la porzione frontale è coperta da detriti. Ghiacciaio non particolarmente frequentato nel periodo estivo; frequentazione più probabile nel periodo primaverile”.

E non è in ottima compagnia

Se il Coolidge è diventato un glacionevato, non è che gli altri corpi glaciali stiano poi tanto meglio. “Gran parte dei ghiacciai vallivi presentano le lingue coperte di una coltre detritica continua (debris covered glacier) – riporta la relazione – , mentre i ghiacciai montani stanno evolvendo rapidamente verso tipologie di glacionevato o di circo. Le aree maggiormente glacializzate del Piemonte ovviamente fanno riferimento alle aree orograficamente più elevate, ossia quelle del Gran Paradiso, del Monte Rosa e dell’alta Val Formazza in Ossola. L’esposizione e la morfologia dei versanti sui quali questi ghiacciai insistono hanno un notevole effetto sull’aspetto attuale degli accumuli di ghiaccio.

In particolare, ciò è ben evidente nella zona del Monte Rosa in cui si ha una netta differenza tra il bacino della Sesia (esposto a sud) e quello dell’Anza (esposto verso est e verso nord). I ghiacciai della Val Sesia sono di dimensioni ridotte e separati tra loro; mentre quelli della Valle Anzasca sono estesi su ampie porzioni di versante, spesso coalescenti e confluenti in lingue comuni. Tuttavia, anche il settore dell’Anza presenta una evoluzione di rapido declino che porta alla formazione di ghiacciai sospesi la cui stabilità è strettamente legata alla loro massa ed all’evoluzione del permafrost.”

Il “legame” tra Coolidge e la Marmolada

Nelle scorse settimane il nome del ghiacciaio del Coolidge è rimbalzato improvvisamente sul web, in quanto utilizzato come termine di paragone  per spiegare il tragico crollo verificatosi sul ghiacciaio della Marmolada il 3 luglio scorso. Come riportato dall’ARPA, nella sera del 6 luglio 1989, sul ghiacciaio del Coolidge si verificò un ingente crollo, con una dinamica molto simile a quella rilevata in Marmolada, fortunatamente in quel caso senza causare vittime.

“Tale ghiacciaio, annidato in una nicchia posta a 3200 m di quota, si scollò dal substrato precipitando nel sottostante canalone Coolidge spiega l’Arpa – . La massa di ghiaccio mobilizzata (volume stimato di circa 200.000 m3 ) scese velocissima lungo il canalone, impattò sul Ghiacciaio Inferiore di Coolidge causando un’onda sismica registrata ad oltre 20 km di distanza e, dopo aver percorso un dislivello di circa 900 m, si espanse nell’area circostante il Lago Chiaretto (a 2261 m di quota) su una superficie di 250.000 m2 circa, con spessori massimi di una decina di metri. Tra le cause predisponenti e innescanti del crollo del ghiacciaio nel 1989, gli Autori riportano: i) la presenza di un crepaccio sommitale in grado di drenare le acque di ruscellamento, ii) piogge anche in alta quota nei giorni precedenti il distacco, iii) l’isoterma 0°C in rialzo fino a quota 4500 m nelle ore centrali del 6 luglio. Quest’ultimo aspetto assume un particolare rilievo perché il crollo del Ghiacciaio di Coolidge può essere considerato il primo e significativo evento di instabilità nell’ambiente glaciale italiano riconducibile al riscaldamento climatico.”

Il problema dei ghiacciai in estate

La specifica “non particolarmente frequentato nel periodo estivo” riportata dall’Arpa nella descrizione del Coolidge, non ha soltanto uno scopo descrittivo. Come premesso, ogni parola della relazione va interpretata come un elemento importante per la valutazione di un eventuale rischio connesso alla instabilità di un corpo glaciale.

“I rischi di origine glaciale stanno incidendo, con frequenze più elevate rispetto al passato, anche sulla frequentazione dei ghiacciai soprattutto nel periodo estivo. L’aumento di incidenti sulle superfici glaciali deve considerare l’effetto congiunto di una maggiore frequentazione di alpinisti e delle pesanti modifiche morfologiche e strutturali sopra descritte. Negli ultimi anni l’accesso ai ghiacciai è più difficoltoso e le rocce instabili scoperte dal ghiaccio in arretramento sono spesso soggette a crolli. In molti casi gli itinerari classici alpinistici sono stati modificati per evitare le zone divenute più pericolose – si legge nel report – . Occorre considerare che il rischio di caduta in un crepaccio è di solito più facile da gestire con preparazione tecnica e attrezzatura idonea, a patto di valutare con esperienza ed attenzione la stabilità dei ponti da neve (che anche in questo caso può dipendere dalle precipitazioni nevose e dalle temperature).”

“I rischi che derivano dal collasso e dalla rotta glaciale, invece, sono più subdoli e poco o per nulla prevedibili – si aggiunge – : in tal caso può aiutare una corretta pianificazione dell’itinerario. Alcuni accorgimenti di carattere generale consiglierebbero, soprattutto in occasione di prolungate ondate di calore anomalo anche in quota, di evitare se possibile di transitare su lingue glaciali molto crepacciate a forte pendenza, specie se caratterizzate da affioramenti rocciosi che potrebbero favorire la percolazione di acqua in profondità. Migliorare la conoscenza sulle dinamiche dei ghiacciai maggiormente frequentati o che comunque potrebbero interferire con il territorio antropizzato potrebbe rivestire maggiore interesse nei prossimi anni per una gestione del rischio più consapevole.”

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