Ambiente

Così i boschi di faggio italiani si adattano ai cambiamenti climatici

Temperature in aumento, talvolta siccità. Lo studio condotto dal CNR mostra come questi alberi reagiscono ai mutamenti del clima. Dalle regioni centro-meridionali giungono le riposte più incoraggianti

Una recente ricerca ha fornito importanti informazioni sulla capacità dei boschi di faggio in Italia di adattarsi e resistere agli effetti del cambiamento climatico. Sono infatti capaci di utilizzare in modo efficiente l’acqua a loro disposizione adottando strategie diversificate a seconda delle condizioni ambientali in cui si trovano. Ed è emerso che le faggete del Sud reagiscono in modo diverso da quelle del Nord.

Lo studio è stato condotto dal Consiglio nazionale delle ricerche attraverso l’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo (Cnr-Isafom) di Perugia e l’Istituto per la bioeconomia (Cnr-Ibe) di Sesto Fiorentino (Firenze), in collaborazione con l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e la libera Università di Bolzano. La ricerca, pubblicata sulla rivista Scientific Reports, ha preso in esame un arco temporale di quasi 50 anni (dal 1965 al 2014) evidenziando le strategie attraverso le quali le piante conservano l’acqua e reagiscono alla siccità.

Sono state considerate diverse popolazioni lungo l’asse Nord-Sud della penisola italiana, dal Trentino-Alto Adige, al Lazio, alla Campania e alla Calabria.

Il faggio (Fagus selvatica) è una specie ampiamente distribuita in Europa e ha un importante significato ecologico ed economico. Basti pensare che nel nostro Paese il 17% degli alberi a latifoglie sono faggi.

Per valutare la salute delle piante e la risposta di questi boschi ai cambiamenti ambientali sono stati utilizzati indicatori chiave come l’incremento dell’area di base dei fusti e l’efficienza nell’uso dell’acqua. Si è cioè considerata (attraverso metodi che utilizzano isotopi radioattivi) la quantità di carbonio assimilata negli anelli annuali degli alberi, per unità di acqua utilizzata dalla pianta durante il processo di fotosintesi (un valore che prende il nome di efficienza intrinseca).

“Se, per esempio, durante un periodo di siccità, gli alberi chiudono i loro stomi ( le aperture sulle foglie che regolano gli scambi gassosi, n.d.a.) per ridurre la perdita di acqua durante la fotosintesi, questo è segno di un aumento dell’efficienza intrinseca nell’uso dell’acqua – spiega Paulina F. Puchi (Cnr-Isafom e Cnr-Ibe) prima autrice del lavoro –  ma può portare alla morte della pianta a causa della carenza di carbonio nel lungo termine, perché, con gli stomi chiusi, l’ingresso del biossido di carbonio (CO2) necessario per la fotosintesi è limitato, e si riduce la capacità della pianta di produrre carboidrati e altre sostanze essenziali per la sua crescita e sopravvivenza”. D’altro canto, una diminuzione dell’efficienza intrinseca nell’uso dell’acqua porta ad altre conseguenze.

Quindi vi sono diverse strategie adottate dalle nostre faggete per affrontare il crescente rischio di mortalità a causa di siccità estreme e dell’incremento della temperatura, trend che nel corso degli ultimi decenni sono diventati sempre più evidenti. In particolare, aggiunge Giovanna Battipaglia, docente di ecologia forestale presso l’Università della Campania “L. Vanvitelli”: “I risultati mettono in luce la variabilità nella risposta alla siccità tra le diverse popolazioni analizzate lungo un transetto latitudinale della penisola italiana”.

Uno degli esiti più significativi riguarda l’identificazione di foreste che in apparenza risultano essere in buono stato di salute, ma nelle quali i ricercatori hanno rilevato segnali precoci di stress a seguito di eventi climatici estremi, come la siccità del 2003. Segnali che indicano una perdita di resilienza in alcuni gruppi. In effetti questi boschi stavano reagendo alla siccità estrema di quell’annata. Ci si sarebbe aspettato che a soffrirne di più fossero i faggi del Sud, che crescono in regioni più calde e secche; invece, l’effetto più drastico è stato rilevato in Trentino-Alto Adige, dove si è osservata anche una maggiore riduzione della crescita degli alberi rispetto ad altri che si trovano più a sud come in Lazio, in Campania e nell’area del Matese.

“Nelle regioni meridionali prese in esame non abbiamo osservato una drastica riduzione nella crescita delle piante, come invece abbiamo rilevato in quelle settentrionali”, aggiunge Daniela Dalmonech (Cnr-Isafom). “Non solo: sempre al Sud è stato evidenziato un aumento dell’efficienza nell’uso dell’acqua, suggerendo una migliore risposta di adattamento di questi boschi alle condizioni ambientali più estreme”.

Comprendere i meccanismi di resilienza dei boschi di faggio è importante per sviluppare strategie efficaci, ad ampio raggio, di conservazione degli ecosistemi forestali conclude Alessio Collalti, responsabile del Laboratorio di Modellistica Forestale del Cnr-Isafom e coautore del lavoro. Questo vale per il contesto italiano, ma anche a livello globale”.

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