Pakistan, quale futuro per l'alpinismo?
BRESSANONE, Bolzano — La gestione dei soccorsi sugli ottomila. Il K2 da pulire fino ai campi alti. La formazione dei portatori d’alta quota, travolti dalle polemiche dopo la tragedia del K2 nel 2008. Le opportunità per le donne. Il turismo in crisi per la cattiva immagine del paese sui media e le difficoltà di gestire alcune delle montagne più ambite del mondo in un paese dove l’alpinismo è poco popolare e i contributi scarseggiano. Ecco i temi toccati da Nazir Sabir, presidente del Pakistan alpine Club e uno dei più grandi alpinisti della sua nazione, in questa intervista esclusiva di Montagna.tv.
Mr. Sabir, che ruolo ha in Pakistan l’Alpine Club?
Da quando è nato, nel 1971, l’Alpine Club ha cercato di promuovere l’alpinismo e prendersi cura delle montagne dal punto di vista ambientale, anche se le nostre risorse sono davvero limitate. Purtroppo, al contrario di molti altri paesi, in Pakistan l’alpinismo non è molto popolare. Per questo sono molto importanti le collaborazioni internazionali.
Ha parlato di ambiente. E’ vero che l’anno prossimo pulirete il K2?
Sì. Lassù ci sono tende congelate, materiali abbandonati, corde fisse lasciate sul percorso. Vogliamo pulire il K2 e nei prossimi anni gli altri ottomila: sono montagne molto frequentate e dobbiamo proteggerle. Con il progetto “Keep Baltoro Clean” stiamo riuscendo ad essere efficaci. Abbiamo pulito il ghiacciaio e l’anno prossimo, con il Comitato EvK2Cnr, inzieremo con quote più alte. Abbiamo fatto una formazione specifica per l’alta quota ad alcuni portatori, tenuta due sherpa della regione dell’Everest. Hanno cercato di trasmettere un modo di gestire le spedizioni che tra i portatori pakistani è del tutto nuovo: loro sono abituati a portare i carichi, non a preoccuparsi dei “clienti” o affrontare situazioni d’emergenza.
A questo proposito vengono in mente le accuse lanciate ai portatori dopo il disastro sul K2 nel 2008…
Sì. Sono stati accusati di essere responsabili della tragedia per aver attrezzato lentamente e male la parte sommitale della montagna. Ma questo è stato un comportamento scorretto da parte degli alpinisti. Per questo abbiamo avviato un’inchiesta, che ho condotto io stesso con due americani che stanno scrivendo un libro con le interviste a tutti i sopravvissuti, soprattutto ai portatori pakistani che erano lassù.
Come mai ancor oggi si trascina la polemica?
E’ stato uno dei più grandi disastri dopo il 1996. In fretta i media hanno catturato alcune cose che sono controverse, discutibili, da alcuni degli alpinisti sopravvissuti. Prima che fossero chiariti i fatti. Io credo che molti commenti fossero davvero ingiusti, scorretti. I portatori avranno le loro colpe ma anche gli alpinisti hanno sbagliato. I nostri portatori non sono in grado di fissare corde a 8000 metri sul K2. Nessuno gli ha mai affidato questo compito in passato. Io sono stato sul K2, e non abbiamo mai pensato di dare questo compito ai portatori. Non puoi aspettarti che loro facciano il lavoro più duro sul tratto più duro della montagna più dura del mondo. Il libro mostrerà al mondo come i pakistani sono stati incolpati ingiustamente. Non perché non abbiano fatto sbagli, ma perché sono stati incaricati di cose che non sapevano fare e l’errore è a monte. Questa è una cosa che la comunità alpinistica ha capito perfettamente, ma la gente comune no. Comunque, questo è il motivo per cui noi, oggi, vogliamo migliorare la formazione dei pakistani.
Come state agendo per migliorare la formazione?
Per esempio con il training d’alta quota di cui parlavo prima. E’ la prima volta per i nostri portatori. E’ stato fatto alle guide trekking che abbiamo formato negli ultimi due anni con Karakorum Trust, che hanno ricevuto lezioni su tecniche di soccorso, recupero da crepaccio, mal di montagna e altre cose. Vogliamo anche migliorare le loro capacità alpinistiche perché ora loro sanno salire con le jumar, e poco altro. La competenza dei nostri portatori d’alta quota è una delle carenze che abbiamo, al contrario del Nepal, e questo scoraggia molte commerciali che, per venire con i clienti da noi, devono portarsi gli sherpa, che sono costosi perché pagano il permesso come alpinisti.
Ci sono stati diversi incidenti in alta quota negli ultimi anni. Com’è la situazione dei soccorsi in Karakorum?
Difficile perché gli elicotteri sono dell’esercito e non sono attrezzati per i recuperi in montagna, anche se i piloti sono grandiosi, tra i migliori del mondo: ricordo il salvataggio di Tomaz Humar, sul Nanga Parbat a 6200 metri. Siamo più indietro rispetto al Nepal, forse perché la storia alpinistica del Karakorum è molto più corta. Spero che in questo campo ci arrivi una mano dall’estero, perché come dicevo il governo pakistano non fornisce molte risorse. Purtroppo, penso che la comunità alpinistica internazionale stia dedicando troppo poca attenzione a questo problema del Karakorum, guardano sempre al Nepal. Il problema è che solo l’esercito può volare in Pakistan, visto che siamo una security zone per i problemi del Kashmir. Ma si potrebbe fare qualcosa comunque, tipo addestrare una decina di equipaggi per il volo in montagna.
Come va il turismo in Pakistan?
Migliorerà. Oggi esiste, ma soffre per le tensioni politiche. Nel 2007 abbiamo avuto il più alto numero di spedizioni alpinistiche in Pakistan: circa 120. Quest’anno 56: c’è stato un brusco calo, per la cattiva immagine del Pakistan sui media. Ma gli alpinisti, soprattutto quelli che sono già stati in Pakistan, sanno che le montagne sono una zona tranquilla e non hanno niente a che vedere con la zona problematica sul confine afghano. Devo dire che dopo l’11 settembre gli alpinisti sono stati tra i nostri migliori rappresentanti, perché continuavano a venire, a scrivere libri e articoli sulle nostre montagne. Gliene siamo grati. Come uomo del Karakorum voglio dir loro: venite da noi, nelle nostre montagne, la vostra presenza per noi è piu importante dei soldi. Così possiamo uscire da questo isolamento creato dai media. Io comunque vedo questo periodo come un’opportunità per noi di concentrarci su noi stessi e preparare una struttura solida per tempi migliori.
Per esempio?
Impostare una struttura ecologica pronta ad accogliere i turisti, magari imparando a gestire l’inquinamento come fanno sulle Alpi. Il più grande problema sono i rifiuti umani, bisognerebbe imparare come non inquinare, e per primi dovrebbero farlo gli abitanti dei villaggi, e poi creare delle toilettes, delle fogne. La sfida più grande è forse abituare i locals. Dobbiamo poi trovare una formula per i turisti, tipo una tassa ambientale, come in Nepal. Ma da noi è più difficile: il Baltoro sono 20 chilometri di ghiacciaio dove si campeggia per una settimana, non è semplicemente un campo base che si può pulire velocemente.
Qual è la zona preferita dai trekker?
Il Baltoro sicuramente. Vogliono tutti andare là, il 95 per cento dei trekker. Forse è “colpa” o “merito” di vo i italiani che amate così tanto questo posto: è parte della vostra storia e lo promuovete in modo importante. Nel 2004 c’erano mille trekker italiani. Ma la nostra area montana è davvero grande, grande come metà del Nepal. Noi possiamo offrire cose bellissime in tutta l’area, e per incoraggiare le visite abbiamo anche tagliato del 90 per cento i costi dei permessi per le altre montagne. Comunque, fosse per me, toglierei questi permessi d’ingresso completamente, metterei solo un centinaio di dollari da dare a chi si occupa di tenere l’ambiente pulito e magari 50 dollari da devolvere alle famiglie dei portatori e così via. Ma credo resterà un sogno, per ora.
L’Italia è un partner importante per voi?
Sì, c’è un grandiosa collaborazione tra Italia e Pakistan, una collaborazione che nasce sulle montagne, è cominciata con Ardito Desio e il Duca degli Abruzzi e ha portato a tanti progetti e tante spedizioni italiane in Karakorum. Il Central Karakorum National Park, per esempio, sarà una grande iniziativa e spero che diventi un giorno un World Heritage Site dell’Unesco. Un altro dei miei sogni è un Mountain Film Festival, di cui abbiamo dato un assaggio a dicembre. Ricordo che ho visto il mio primo film a 8-9 anni, ed era il film italiano del K2. C’era un cuoco della spedizione, che diceva “sono io” ogni volta che si vedeva qualcuno scalare. Non era vero… ma lo ricordo ancora. Penso sia uno stimolo per i giovani, anche e spero soprattutto per le ragazze.
Che progetti ci sono per le donne?
Stiamo puntando molto su di loro, sono il 51 per cento dei pakistani e non hanno mai avuto opportunità. Ci siamo occupati della loro formazione alpinistica negli ultimi 3 anni: come presidente dell’Acp, vorrei lanciare una spedizione femminile all’Everest entro 10 anni. Le ragazze iraniane l’hanno salito, voglio che anche le nostre abbiano una possibilità, vengono da una terra di grandi montagne. Molti mi guardano storto per questo, ma io faccio finta di niente e vado avanti.