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Un inno al Cerro Torre e all’amicizia. “La vetta della vita”, di Matteo Della Bordella

Il recente libro dell’alpinista lombardo racconta le sue tre ascensioni al Torre, il dolore per la morte di Matteo Bernasconi, Matteo Pasquetto e Korra Pesce, la gioia delle piccole esplorazioni in Patagonia con la famiglia

Gli alpinisti, eterni girandoloni, hanno i loro luoghi del cuore. E’ impossibile pensare a Walter Bonatti senza il Monte Bianco, a Emilio Comici senza le Tre Cime, a Bruno Detassis senza le Dolomiti di Brenta. Matteo Della Bordella, 40 anni, lombardo di Varese, presidente per sei anni dei Ragni di Lecco, ha scalato praticamente dappertutto. Pizzo Badile e Marmolada, Terra di Baffin e Wendenstöcke, Yosemite e Groenlandia, Himalaya del Garwhal e Karakorum.

Le sue montagne del cuore, però, quelle dov’è tornato per quattordici volte e tornerà di nuovo tra qualche giorno, sono in Patagonia. In quella terra ventosa “al final del mundo” come dicono gli argentini, il suo sguardo si è fissato da anni sulle guglie granitiche che si affacciano a est sulle case di El Chaltén e sulla pampa, e a ovest sulla distesa di ghiaccio dello Hielo Continental. Il Fitzroy, la Torre Egger, l’Aguja Guillaumet, il Cerro Standhardt. Simbolo della zona è il Cerro Torre, l’“urlo di pietra”, una delle montagne più belle del mondo.

E’ dedicato al Torre il titolo di La vetta della vita (Rizzoli, 240 pagine, 18 euro), l’ultimo libro di Matteo. E’ dedicata al Torre la foto di copertina, diversa dalle immagini più note di quella straordinaria montagna. Invece delle pareti di granito, mostra il fungo di ghiaccio della vetta fotografato da un drone, sullo sfondo della distesa bianca dello Hielo.

Minuscoli, compaiono Della Bordella e David Bacci, arrivati lassù tre anni fa dopo aver aperto la via Brothers in Arms. A pilotare il drone era Matteo De Zaiacomo, il terzo componente della cordata. Per l’alpinista di Varese era la terza volta sulla cima.

Gli alpinisti a volte scrivono in maniera pesante, ripetitiva, monocorde. Matteo Della Bordella no. Quando racconta le sue arrampicate, in Patagonia e non solo, riesce a descrivere con efficacia e precisione gli appigli, le fessure dove piazzare a fatica un friend o un nut, gli sguardi tra compagni di cordata, il suo respiro. Lo fa bene, coinvolgendo ed emozionando il lettore, che sia un ottimo scalatore o un alpinista da poltrona.

Poi, senza fatica apparente, Matteo passa dalla lotta in parete alle riflessioni sulla vita, alla ricerca dei perché. Più volte, quando spiega a sé stesso e agli amici per quale motivo deve affrontare una montagna, o spiega perché non può rinunciare a partire, usa come un mantra la frase “questo è il mio lavoro”, che sembra stridere con l’amore per il granito e per il vuoto delle righe precedenti. Forse per un ingegnere lombardo, anche se ha scelto un mestiere diverso, la parola “lavoro” è sempre al centro.

Per gli alpinisti di Lecco, e per molti del resto della Lombardia, anche se non lo hanno mai visto dal vivo, il Torre è una montagna di casa come la Grignetta o il Badile. Nel libro, come nelle sue conferenze, Della Bordella racconta che le sue avventure sono figlie delle esplorazioni di Walter Bonatti e Carlo Mauri alla fine degli anni Cinquanta, dei primi tentativi al Torre compiuti dai Ragni, dell’arrivo sul fungo di ghiaccio della cima, nel 1974, dei lecchesi Casimiro Ferrari, Mario Conti, Daniele Chiappa e Pino Negri.

Da allora, per generazioni di Ragni (che si chiamano ufficialmente “della Grignetta” e non “di Lecco”, come spesso si scrive sbagliando) il Cerro Torre e le vette vicine sono rimasti una tappa obbligata e un’ossessione.

Quella di Matteo, raccontata un passo dopo l’altro nel libro, inizia con l’apparizione in lontananza del Torre, nel 2011, mentre passeggia per le strade ventose di El Chaltén. L’alpinista lombardo lo descrive, parla di sé stesso (esagerando!) come un “ragazzino timido e incapace”. Poi, per placare la sua fame di roccia, si dirige verso la Torre Egger, un altro straordinario monolito.

Negli anni che seguono Matteo sale per due volte il Torre, prima per la Via del Compressore, dove i chiodi a pressione di Cesare Maestri sono stati eliminati da poco, e poi per la via tracciata dai Ragni nel 1974 sul ghiacciato versante Ovest della montagna. Il suo sogno, però, è una via nuova sulla parete Est, raggiungendo e superando un nettissimo diedro visibile anche da lontano.

La tenta insieme a Matteo Pasquetto, rinuncia dopo aver salito parte del diedro, torna in Italia pensando già a un nuovo tentativo. Invece oltre al Covid, arrivano prima la morte di Matteo Bernasconi durante un’uscita di scialpinismo in Valtellina, e poi quella di Pasquetto che cade poco sotto la vetta delle Grandes Jorasses, davanti agli occhi di Matteo Della Bordella, dopo aver aperto una via nuova. “Feci in tempo a incrociare i suoi occhi un’ultima volta, mente tentava disperatamente di arrestare la caduta” è il terribile epitaffio dell’autore.

Dopo il dolore per la morte degli amici, la vita pian piano riprende. Arriva la presidenza dei Ragni, nasce Lio, il primo figlio di Matteo e di Arianna, arriva il momento di tornare sul Torre. Stavolta tutto sembra filare liscio, e il 27 gennaio 2022 Della Bordella, David Bacci e Matteo De Zaiacomo detto Giga completano Brothers in Arms, una magnifica via 1200 metri con difficoltà fino al 7a e all’A2, e tratti fino a 90° su ghiaccio.

Nella parte alta, dove la via lascia la Est per passare sulla Nord del Torre, i lombardi seguono Corrado “Korra” Pesce e Tomás Aguiló, che stanno aprendo un’altra via nuova. Poi arriva una nuova tragedia. In discesa, per una via diversa da quella di Matteo e compagni, una scarica di roccia e ghiaccio si abbatte su Korra e Tomás.

L’argentino, anche se ferito, riesce a scendere per qualche centinaio di metri, e poi viene salvato da Della Bordella (che è risalito dopo essere tornato sul ghiacciaio), Roger Schaeli, Thomas Huber e altri. Korra Pesce, piemontese diventato guida di Courmayeur, ha subito delle ferite più gravi e non ce la fa. Matteo è sconvolto, e a farlo uscire dal dolore è la presenza accanto a lui di Arianna e di Lio.

Un anno dopo, quando il bimbo ha due anni, Matteo lo riporta in Patagonia, lo trasporta nello zaino per qualche ora, passa una notte insieme alla famiglia ai piedi del massiccio del Fitzroy. Due giorni dopo, mentre il bimbo resta affidato per qualche ora a un amico, babbo e mamma salgono l’Aguja Guillaumet, cinquecento metri di meraviglioso granito. La ruota della vita ha ripreso a girare.

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Un commento

  1. ‘La ruota della vita ha ricominciato a girare’.

    La ruota della vita gira comunque. Anche quando il finale non è quello desiderato. Ci sovrasta, non la governiamo, la ruota della vita, siamo noi a girare con lei. Noi siamo grati a questa ‘ruota’ che ci ha regalato un figlio come Matteo Pasquetto. E continueremo anche noi a girare con lei, con la vita, finché ci saranno dati giorni.
    Marina, mamma di Matteo Pasquetto

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