Moro: più verità e cultura della rinuncia
BERGAMO — "E’ un discorso difficile, come si fa a impedire la libertà nell’alpinismo, e poi si deve? Bisogna fare chiarezza e fare cultura, e questa la fanno in primo luogo i protagonisti, che nei loro racconti dovrebbero esaltare un po’ di più il valore della rinuncia e dei pericoli che si corrono in alta quota e che si dovrebbero sempre coscientemente evitare e limitare". Questo il parere di Simone Moro sulla questione dell’etica alpinistica e del rispetto della vita.
Per prima cosa ricordiamoci che la sicurezza molto spesso è data dalle tue abilità e dalle scelte che fai: per esempio di rinunciare quando sei ancora in tempo evitando di farsi accecare dall’ambizione, dallo sponsor e dalla potenziale fama. Anche nel recente e lontano passato abbiamo avuto esempi di voluta e cosciente accettazione di rischi elevatissimi rifiutando di rinunciare alla vetta, per poi assistere ad una tragedia annunciata ed prevedibile. I pochi protagonisti sopravvissuti invece di chiedere scusa e di riconoscere gli errori (e dunque fare cultura e capitalizzare per se stessi e gli altri questa esperienza) si sono venduti come eroi cercando altrove colpe e responsabilità proprie. Un pessimo esempio di spazzatura alpinistica.
I rischi poi si possono ridurre e preventivare facendo le cose per tappe, allenandosi come veri atleti, con autodisciplina severa, quasi stoica e non da ultimo organizzando a tavolino l’eventuale soccorso (e capacità di autosoccorso) – magari prima che tu ne abbia bisogno, oppure un opzione B al progetto originario. Però bisogna pensare anche alle condizioni esterne: in Tibet ed in altissima quota per esempio non c’è l’elicottero, qualsiasi soccorso viene a piedi e spesso da persone non sono per forza acclimatate e rapidamente disponibili.
Il numero di incidenti, comunque, sembra crescere in modo smisurato…
Il discorso è più ampio. Bisogna rendersi conto che oggi sempre più gente muore perchè sempre più gente va in spedizione. Una volta partire per una spedizione era un notizione. Oggi, ce ne sono talmente tante che giocoforza aumenta anche il numero degli incidenti, è una realtà anche statistica. Se guardiamo agli ultimi anni, Piantoni, Unterkircher, Ochoa, Morawski, Fait, Humar… non stiamo parlando di “brocchi” ma della crema della crema. E non è che sono morti perchè sono somari, ma perchè è capitato l’imponderabile. Se fossero stati a casa certo non sarebbero morti con quella dinamica ma non sarebbero stati protagonisti autentici e coscienziosi dei loro sogni e per favore non cominciamo a pretendere di insegnare cosa si deve sognare per se stessi. Semmai il come…. Insomma non c’è una decisione sbagliata dietro la morte dei personaggi che ho appena citato, mentre per moltissime altre tragedie la fine era quasi telefonata….
Un capospedizione può aiutare?
Avere il capospedizione forte, se da un lato può evitare l’anarchia, che ha generato delirio in tante spedizioni, dall’altro devo considerare che nei grossi incidenti recenti, un capospedizione forse non avrebbe potuto far molto, perchè sono capitati in giornate serene e condizioni ottimali, le loro abilità c’erano. Piantoni stava rinunciando, Ochoa ha avuto un edema. Devo dire che non credo molto nell’impostazione che vede il capospedizione a guidare tanti soldatini. Torneremmo alle spedizioni di Desio e a quelle di tipo sovietico, che rispetto ma non amo. L’alpinismo è anche individuo e individualità ed è su questo aspetto che dovremmo lavorare e raccontare in modo autentico (come fatto recentemente al I.M.S. di Bressanone) e non metterci a fare alpinismo militare, di gregge belante, magari a comando.
Nemmeno per le spedizioni dei giovani?
E’ vero che ci sono tanti giovani che si lanciano troppo. E’ difficile questo discorso, come si fa a impedire la libertà nell’alpinismo e l’irruenza giovanile che è stata propria di tutti noi? Forse facendo della cultura, e la cultura la fanno i protagonisti. Vedo troppa gente che si preoccupa di microfoni e media, prima ancora delle giuste tappe da fare prima di sognare in grande. Insomma io mentre sto rispondendo a questa intervista ho ancora le mani sporche di magnesio e la sveglia puntata per andare tra poco a correre due ore dopo questa pausa al PC, e questo tutti i giorni da 25 anni. Come me tantissimi altri protagonisti del mondo alpinistico realizzano e preparano minuziosamente le loro strepitose salite ed i nomi sono quelli che conosciamo tutti.
Sogniamo e progettiamo in grande ma ci prepariamo in ugual modo e sappiamo comunque di non essere immuni da rischi e pericoli che spesso abbiamo evitato di affrontare quando troppo alti. Personalmente quando poi arrivano i microfoni e sono sul palco racconto proprio di questo, di cosa sta dietro una scalata e dietro queste 41 spedizioni che ho fatto. Quanto è importante avere paura, rinunciare, palesare gli errori, essere autocritico prima che critico verso gli altri. Anche Messner diceva che su 30 spedizioni, un terzo sono state rinunce ed io sono cresciuto ed ho sognato basandomi su questo grande insegnamento che veniva proprio dal numero uno. Forse è il caso di esaltare un po’ di più il valore della fatica e della rinuncia, e forse qualcuno avrà meno vergogna a dirlo e andrà meno all’arrembaggio.
Un parere sull’alpinismo esplorativo…
Per fare un alpinismo esplorativo e di valore assoluto ( ovviamente mi riferisco ai professionisti o aspiranti protagonisti ) oggi non basta più fare le cose difficili di una volta. Bisogna alzare il livello personale e delle propre salite sempre di più, esattamente come l’asticella del salto in alto. Ma non deve essere una roulette russa, un alpinismo Kamikaze. Bisognerà rivedere tattiche, stili, tempi. Bisogna sempre tener presente che in quota non volano elicotteri, sono difficili, quasi impossibili i soccorsi, per lo meno in tempo utile. Quindi sarà sempre potenzialmente più pericoloso, bisogna stare sempre più con le antenne dritte, con una preparazione assoluta, la giusta dose di paura e acuta capacità d’analisi. Sicuramente non basta un capospedizione col binocolo per sostituirsi al buon senso, pilotare le scelte in parete ed evitare i rischi. Non serve il poliziotto al campo base che mi dica cosa e come devo scalare ma ci vuole un giusto atteggiamento personale.
Certo, alcuni personaggi, comportamenti deplorevoli e tragedie annunciate, andrebbero accusate apertamente dalla comunità alpinistica ed isolati i protagonisti, ignorati e lasciati soli a riflettere. Invece sono i personaggi più gettonati e richiesti anche all’interno del nostro ambiente e questo la dice lunga su come siamo noi stessi i primi da educare.
Quale potrebbe essere, secondo te, la soluzione?
Siccome tutti noi abbiamo iniziato a fare alpinismo leggendo e sognando sui racconti del passato, sarebbe bello leggere ed esaltare le vere grandi gesta ( come avviene specialmente nei paesi anglosassoni o dell’est), fatte da gente pulita , preparata, umile e rispettata, come pure le grandi gesta di rinuncia, di avventure senza vetta ma di valore tecnico ed umano, di esplorazioni fatte non per il record ma per la ricerca dello sconosciuto, di dare luce a ciò che era ancora buio . Sarebbe bello che gli alpinisti nelle loro serate raccontassero spesso delle paure, dei pericoli accettabili ed accettati, degli errori da cui hanno imparato e non solo dei loro successi o presunti tali. Altrimenti i giovani vedono solo campioni e falsi eroi e vogliono essere anche loro tali, con gli stessi mezzi, magari con poca fatica ed umiltà e la sola propensione a fare cassa.