Alpinismo

Dal maglione rosso al Cerro Torre, Matteo “Giga” De Zaiacomo si racconta

“Se non venivi tu, chi altro poteva esserci?” Così Matteo Della Bordella a Matteo De Zaiacomo prima di lasciarlo salire sull’aereo che l’avrebbe riportato in Italia. Qualche giorno prima, insieme a David Bacci, hanno aperto una nuova linea tra est e nord del Cerro Torre. Una montagna da sogno su cui De Zaiacomo ha festeggiato i suoi 29 anni. “Ti svegli al mattino, gli altri ti dicono ‘buon compleanno’ poi prendi a scalare il Diedro degli Inglesi”. Sei contento, perché è un bel regalo. Forse il più bello e inaspettato, anche se sei cosciente che quella notte appeso alla montagna, senza acqua e con poche ore di sonno, di certo non è la festa che ti aspettavi prima di entrare negli “enta”.

Quando è montato sull’aereo gli sono tremate le gambe a De Zaiacomo. L’attestato di stima di Della Bordella (in stile Ragni) ha centrato l’obiettivo. “Avevo 18 anni quando mi ha invitato per la prima volta a scalare insieme” ricorda. “Un fine settimana, non ho dormito la notte all’idea di fare una via con lui”. Poi vai, vedi che è umano, come te… “ma ha quell’aura che ti rende orgoglioso a essere lì, insieme”. Alla pari, verrebbe da dire oggi che i due hanno condiviso ben più di un’esperienza. Impossibile dimenticare la ovest del Bhagirathi IV, in giornata… che cavalcata con Matteo e Luca Schiera. “È stato Luchino (Luca Schiera, nda) a propormi di entrare nei Ragni, quando me l’ha detto mai avrei pensato. Lo vedevo come un traguardo irraggiungibile”.

Giga, come lo chiamano tutti, è così. Un gigante buono. Sta vivendo un sogno inaspettato, inatteso. Ha aperto una via sul Cerro Torre, è entrato nel mito. Sorride d’imbarazzo all’altro capo del telefono quando glielo ricordiamo, mentre sciolina qualche sci in negozio. Sì, perché nella vita quotidiana si guadagna da vivere come un po’ tutti, lavorando. “Da una parte non mi interessano molto i contratti di sponsorizzazione, dall’altra non ho mai avuto l’opportunità”. E forse è meglio così, lo pensa ma non lo dice. Gli piace quella libertà di non dover rendere conto a nessuno e poter vivere la sua passione. Magari con qualche sacrificio, ma diavolo nelle mani ha un 8c e la vita l’ha portato dall’Himalaya alla terra di Baffin, senza dimenticare il granito patagonico.

Matteo, quando inizia la tua storia con la montagna?

“I miei praticano l’arrampicata, sono molto appassionati. È stata una questione di famiglia. Mio padre ha iniziato a scoprire le montagne dell’agordino a 15 anni. Poi ha conosciuto mia mamma e hanno iniziato ad andare insieme, non hanno mai smesso. Nemmeno quando per un periodo hanno vissuto in Sardegna, anzi. Erano gli anni Ottanta ed era ancora tutto da fare, così papà ha scoperto la dimensione sportiva.”

A un certo punto arrivi anche tu nella storia…

“I miei primi ricordi sono ai piedi delle falesie valtellinesi, anche se da piccolo giocavo a pallone, come un po’ tutti quelli della mia età. Verso i 16 anni poi mi è scattato qualcosa e ho iniziato a dedicare molto tempo all’arrampicata. Come tutti rincorrevo il grado, la difficoltà.”

Mentalità puramente sportiva?

“Era l’unico modo per vedere un miglioramento, per dire: ok, sto facendo qualcosa di giusto. Quando poi verso i 18, 19 anni mi sono accorto che non crescevo più sulle difficoltà mi sono detto ‘proviamo qualcosa di nuovo’. Così sono andato in montagna. In falesia tiravo 8a e 8b, era tempo di vedere cosa riuscivo a fare su qualche via.”

Con chi hai fatto queste prime esperienze alpinistiche?

“Sempre con mio padre. Insieme abbiamo vissuto delle gran belle avventure, fin quando nel 2014 ho partecipato a una spedizione in Kirghizistan insieme a Luca Schiera. Al tempo non ero ancora un Ragno, ma Luchino aveva intuito qualcosa, aveva visto la mia ambizione a fare qualcosa di difficile in montagna. Eravamo due ragazzini, anche se lui aveva già nel curriculum l’Uli Biaho e la Egger.”

Qui è dove tutto è cambiato?

“Innanzitutto ho capito che volevo viaggiare, volevo usare questa scusa dell’arrampicata per girare il mondo e per scalare pareti da far brillare gli occhi. Avevo vent’anni, se non lo facevo con quelle energie non l’avrei più fatto. Da lì in poi ogni anno ho cercato di fare almeno una spedizione.”

Come ti organizzi in con il lavoro?

“Lavoro in Engadina, in un negozietto di articoli sportivi per la montagna, e ho la fortuna di avere colleghi e capi fantastici. Siamo tutti appassionati e a inizio mese ci si mette sul calendario tutti insieme. Si guardano i lavori da fare e i giorni liberi che ognuno può prendersi per andare a scalare. La passione si respira non solo parlando con i clienti, ma anche tra di noi. Il Torre mi è costato qualche sacrificio in più, perché nell’ultimo anno e mezzo non ho mai fatto ferie. Dovevo accumulare più giorni possibili per questa spedizione.”

Non hai mai pensato che sarebbe più facile con qualche sponsor personale a sostegno dei tuoi progetti?

“Penso che per fare un certo tipo di alpinismo, per trovare un certo tipo di motivazione, ci sia bisogno di avere qualcos’altro nella vita che ti porti via dai pensieri della scalata. Avere un lavoro esterno al mondo dell’arrampicata fa sognare, ti fa guadagnare ogni gradino verso la tua ambizione. Fa crescere il desiderio di essere grandi.”

Prima ci dicevi che Schiera è stato il tuo promotore nel gruppo Ragni, com’è indossare il maglione rosso?

“Ricordo ancora quando mi è arrivata la chiamata per dirmi che ero passato alla commissione tecnica, il primo step per l’accesso ai Ragni di Lecco. Ero a lavoro, in quel periodo facevo l’idraulico, e sono scoppiato a ridere, convinto che fosse uno scherzo. Solo dopo ho realizzato: sto entrando nel gruppo Ragni! Ho provato un mix di orgoglio e responsabilità, sono cresciuto con il loro mito a stimolare la mia ambizione.”

Dopo?

“È come se fosse crollato ogni limite, sentivo di avere il mondo in tasca.”

Che clima si respira in una cordata Ragni?

“Non abbiamo mali litigato nel gruppo con cui scalo. Mai una volta. C’è una grande sinergia, una capacità di rispettare i pensieri e le preoccupazioni dell’altro senza dover parlare. Ricordo bene all’inizio di quest’ultima spedizione al Torre, quando abbiamo iniziato l’avvicinamento. Nessuno parlava, nessuna frase per 6 ore di cammino. Ognuno di noi stava combattendo i suoi demoni e pensava a quanto fosse alta la temperatura. Ma tutti sapevamo quel che c’era da fare, dovevamo solo andare oltre. In quelle condizioni se avessimo detto la parola sbagliati probabilmente avremmo perso la motivazione e non saremmo partiti. Abbiamo quel modo di essere uniti, di non dire certe cose, che fa la differenza.”

É andata così anche sotto la ovest del Bhagirathi IV?

“Lì è stato incredibile. Tutti abbiamo visto la frana, abbiamo visto come si muore. Silenzio totale, poi usciamo dalla tenda e ci guardiamo. ‘Allora proviamo’. È stata l’unica frase che ci siamo detti, poi siamo andati.”

Avresti mai pensato di aprire una via sul Cerro Torre?

“No, e ancora adesso faccio fatica a crederci. Quando ero in Himalaya con Teo (Della Bordella, nda) e Luchino ho passato il tempo e leggere e rileggere un libro sul Torre che mi ero portato. Nelle giornate al campo base ne parlavo con Matteo, gli chiedevo consigli e pareri. Su una pagina ho anche la sua visione disegnata, c’è quella linea provata con Pasquetto e Bernasconi che poi abbiamo salito. L’ho guardata e riguardata, che roba! Purtroppo poi la serie di eventi che ha portato a me parla di tragedie umane, ma quando Teo me l’ha proposto non ci ho pensato nemmeno per un secondo.”

La salita della vita…

“Due anni fa mi sono rotto il piede per la quinta volta e la proposta di questa via è arrivata proprio nel momento della riabilitazione. Ma non ci ho pensato, ho solo detto ‘ok, andiamo’. Ho dedicato l’ultimo anno e mezzo di vita a questo obiettivo, non c’è stata mattina in cui io non mi sia svegliato pensando che sarei andato a scalare il Torre.”

È stato diverso dalle altre volte?

“Sono stato in molti posti negli ultimi anni. Con Matteo ho condiviso Baffin e l’Himalaya, ma questa volta era tutto diverso. È stato assurdo, un life goal. È andata bene al primo colpo, ma sapevo che sarebbe potuto essere diverso e anche investici 4 o 5 anni di vita non sarebbe stato uno sbaglio. Se non l’avessi fatto avrei portato con me il rimpianto per il resto della mia vita.”

Come spesso succede in montagna sogno e incubo si amalgamano in modo cinico e straziante. Come hai vissuto questa doppia visione del Cerro Torre?

“È difficile da spiegare. Ci siamo trovati a vivere il sogno più bello di sempre, sulla montagna più bella al mondo. Siamo arrivati in cima, felici, poi siamo scesi ed è iniziato l’incubo. Ci sei dentro e vivi una serie di emozioni che si fanno sempre più forti. Prendi coscienza dei rischi che hai accettato e vedi i potenziali danni delle tue scelte.

La persona che hai salutato 12 ore prima sul punto più alto, quella che hai visto calarsi sorridendo, ora non c’è più. Entri in una bolla dove non riesci a scindere la parte bella da quella brutta. Non riesci più a sorridere e nemmeno a essere triste, sei in overdose. Solo con il tempo capisci e riesci ad acquistare lucidità. Quando rientri a casa, quando senti la normalità, è più facile.”

“Brothers in Arms”, per tutti i compagni caduti sul campo…

“Brothers in Arms è la via dedicata a Korra, a Pasquetto e a Berna. Con Pasquetto ci siamo visti poche volte. Abbiamo parlato di progetti, di sogni. Quando si è concretizzata l’opportunità di essere insieme sul Torre aveva iniziato a crearsi un feeling particolare, ma nulla è diventato realtà. Col Berna il rapporto era diverso. Per me era uno di quei miti che mi ha proiettato nel mondo delle spedizioni, di questo alpinismo. Un po’ come il Pedeferri e lo stesso Della Bordella. Più che ricordarlo con sorriso, birra e sigaretta non si può fare. Non c’è ricordo migliore. Berna era quello che parlava poco, ma con il viso riusciva a infondere un senso di tranquillità che alla fine faceva funzionare tutto.”

Ora?

“Difficile da dire, è come chiedere a uno che ha appena finito di cenare cosa vuole mangiare il giorno dopo. Di certo mangio, ma cosa non lo so. Ho molte idee in testa, molti sogni e tanti posti da andare a vedere. L’Antartide, un ritorno a Baffin, El Capitan, il Pakistan. Forse ora voglio solo stare a casa, andare a fare boulder con la ragazza, qualche tiro in falesia e una via in Dolomiti con il papà.”

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