Ambiente

Un nuovo equilibrio nel Tibet sempre più verde

Scioglimento del permafrost e “greening” (o inverdimento) sono due fenomeni che si manifestano negli ecosistemi alpini come conseguenza del surriscaldamento globale. In aree in cui si assista al verificarsi di entrambi, i due fenomeni si presentano interconnessi dal cosiddetto bilancio di CO2 (anidride carbonica). Da un lato sappiamo bene che lo scioglimento progressivo del permafrost determini un aumento delle emissioni di gas serra, prima imprigionati nei ghiacci. Dall’altro sappiamo anche che le piante siano in grado di “fissare” l’anidride carbonica nel corso del processo della fotosintesi, ovvero di convertirla in zuccheri e ossigeno, che viene liberato in atmosfera, consentendo la sopravvivenza degli esseri, come noi, aerobi. In linea teorica potremmo dire che le emissioni di anidride carbonica, che rappresenta il gas serra che contribuisce maggiormente al riscaldamento del pianeta, derivanti dal permafrost in dissoluzione, potrebbero essere annullate in presenza di un tot di piante in grado di assorbire dall’aria la CO2. Uno studio condotto in Tibet da un team di ricercatori cinesi, dimostra che un simile scenario si stia già verificando nel cuore dell’Himalaya.

I risultati della ricerca sono stati di recente pubblicati sulla rivista scientifica PNAS in un paper dal titolo “Plant uptake of CO2 outpaces losses from permafrost and plant respiration on the Tibetan Plateau”. 

Un nuovo equilibrio nel Tibet sempre più verde

“Le regioni caratterizzate da elevati valori di latitudine e altitudine presentano ingenti riserve di carbonio immagazzinato nel permafrost – si legge nell’articolo – . L’aumento rapido delle temperature porta il permafrost a sciogliersi e le piante ad aumentare i tassi di respirazione, con conseguente aumento del rilascio di CO2 nell’aria. Al contempo aumenta però anche il tasso di fissazione della CO2 da parte delle piante.”

L’altopiano si estende da meno di 3000 a 8844 metri di quota. Il permafrost ricopre circa 84,2 milioni di ettari di suolo in maniera continua, 15,9 milioni in maniera discontinua, 23 milioni in patches isolati, rappresentando nel totale il 10% del permafrost terrestre. Negli ultimi decenni la regione ha sperimentato un aumento delle temperature di circa 0,3°C per decennio e un incremento delle precipitazioni a partire dagli anni Sessanta. Osservazioni in situ e simulazioni, hanno portato a stimare un aumento significativo della temperatura del suolo, pari a 0,4°C per decennio, su una scala di 50 anni, con conseguente effetto di scioglimento sul permafrost.

Un recente studio ha stimato una perdita dell’8% del carbonio immagazzinato nel permafrost entro la fine del secolo. Ma campionamenti effettuati negli ultimi 20 anni contraddicono tale scenario, evidenziando che in tali aree non vi sia soltanto una perdita di carbonio, rilasciato sotto forma di CO2, ma anche un contemporaneo accumulo al suolo, dovuto all’espandersi della vegetazione come conseguenza del cambiamento climatico e della riduzione dei pascoli.

Di fronte a questa contraddizione, il team capitanato dal dottor Da Wei ha deciso di recarsi sull’altopiano per effettuare un ampio, su 32 aree di saggio a coprire ogni tipologia vegetazionale della regione: praterie alpine, steppa, zone umide, zone arbustive. I deserti sono stati esclusi dallo studio in quanto la carenza di copertura vegetale li porta ad avere un ruolo marginale nel definire il bilancio del carbonio su scala regionale.

Per ciascuna area sono stati quantificati gli andamenti giornalieri degli scambi di anidride carbonica con la tecnica Eddy Covariance così da valutare il “deposito netto di carbonio”. I valori sono risultati aumentare in maniera direttamente proporzionale alla quota fino a 4000 metri. Al di sopra iniziano a diminuire, probabilmente a causa di una maggiore difficoltà di accrescimento delle piante per le temperature più rigide e minore disponibilità di nutrienti. A quote inferiori è probabilmente l’efficienza di utilizzo del carbonio a diminuire, in quanto temperature meno rigide portano a un aumento della respirazione.

Cosa succederà in futuro?

Altro elemento evidenziato è che in estate la fissazione dell’anidride carbonica risulti essere più dipendente dalla temperatura che nei mesi invernali, soprattutto ad altitudini maggiori. Ipotizzando scenari futuri di clima caldo-umido, c’è dunque da attendersi che tale processo sia sempre più favorito, soprattutto in presenza di suoli umidi, e che dunque il bilancio della CO2 a livello regionale arrivi ad essere dominato dalle piante, con innesco sull’altopiano di un feedback negativo sul surriscaldamento.

Detta in parole povere, man mano che le temperature globali aumenteranno (entro i 2°C di limite che non dovremmo superare) le piante diventeranno più efficienti nell’utilizzare la CO2, andando a contrastare se non bilanciare perfettamente le emissioni del permafrost dell’altopiano.

Un appunto finale: il modello dice chiaramente che oltre i 2°C di incremento termico lo scenario cambierebbe. Non sarebbe più possibile alcun bilanciamento e la CO2 liberata in atmosfera supererebbe di gran lunga quella fissata dalle piante.

Tags

Articoli correlati

Un commento

  1. Quindi non c’è speranza…fino all’ultima frase ero felice che madre natura riuscisse ad autoregolarsi…invece hanno ragione quello che vogliono contrastare lo scioglimento del permafrost riportando in vita i mammut…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close