Alpinismo

Nives Meroi: la salita lampo al Manaslu

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KATHMANDU, Nepal — "Sulla vetta non ci siamo detti nulla. Ci siamo solo abbracciati. Perchè quando arrivi in cima a queste montagne, devi concentrarti sulle loro condizioni: la mente dev’essere libera per pensare alla discesa". Sono le parole di Nives Meroi, che ieri a Kathmandu ha raccontato al nostro corrispondente nepalese la salita al Manaslu, compiuta una settimana fa con il marito Romano Benet e Luca Vuerich. I tre alpinisti hanno rinunciato al tentativo all’Annapurna e ora, stanno rientrando in Italia. Con una promessa: di tornare in Nepal la primavera prossima.

Nives, la vostra salita al Manaslu è stata velocissima…
Sì, siamo risuciti a salire in vetta più velocemente degli altri. Siamo partiti per l’avvicinamento il 21 settembre e siamo arrivati in vetta l’8 ottobre, dopo dodici giorni dall’arrivo al campo base. I dottori raccomandano almeno venti giorni di acclimatamento, ma noi siamo riusciti a salire più velocemente. Forse l’esperienza e gli allenamenti che abbiamo sulle spalle ci hanno rafforzato, anche mentalmente. E poi c’è la nostra determinazione, che ci ha permesso ancora una volta di farcela così, senza ossigeno e senza sherpa d’alta quota.

Com’è stata questa spedizione?
Soprattutto affollata. Nell’ultimo tentativo al Makalu, l’inverno scorso, eravamo da soli, mentre qui c’erano oltre 20 spedizioni. Una differenza d’ambiente abissale.

E’ vero che c’erano tensioni tra le spedizioni commerciali?
Sì, la convivenza sembrava difficile in alcuni momenti. Alla fine sono la maggior parte è salita in vetta. Ma credo che scalare con le bombole di ossigeno e con gli sherpa d’alta quota, sebbene sia più facile, significhi vivere l’avventura a metà. 

Come avete trovato la montagna?
Su tutta la via c’erano corde fisse. In realtà c’erano pochi tratti con alte difficoltà tecniche, ma gli ottomila sono sempre difficili da scalare, vuoi per l’altitudine, per il tempo e per la tua condizione fisica. Un alpinista non deve mai dimenticare che nessuna cime deve essere considerata inferiore alle altre.

In cima cosa vi siete detti tu, Romano e Luca?
Non abbiamo parlato. Ci siamo solo abbracciati. Perchè quando arrivi in cima a queste montagne devi concentrarti sulle loro condizioni. E’ fondamentale che la tua mente sia lucida e libera per affrontare la discesa. I festeggiamenti possono essere fatti al campo base.

Al campo base hai incontrato Edurne Pasaban?
Sì, abbiamo chiacchierato un po’. Poi però abbiamo scalato in giorni diversi, e con lei non ho condiviso nessuna esperienza sulla montagna.

Qual è stato il momento più bello?
Difficile dirlo. Una spedizione non è mai solo una cima, è sempre un’avventura. Un’avventura romantica, se vuoi: ognuna ha la sua storia da raccontare. E’ per questo che continuerò – anzi continueremo – a scalare gli ultimi 3 ottomila che mi mancano.

E’ la tua decima spedizione in Nepal dal 1996 ad oggi. Sei legata a questo paese?
E’ vero. Sono sempre venuta in Nepal con la scusa di una spedizione, ma credo chiunque dovrebbe visitare questo paese più di una volta. Gli alpinisti che frequentano spesso questi luoghi, spesso cercano di far qualcosa per le popolazioni di montagna. Anche noi, con  la Nepal Namaste, abbiamo partecipato alla creazione di una scuola, la Splendid Valley School, a Nagarkot.

Qualcuno ha detto che questo mese avresti salito anche l’Annapurna…
No, per ora il Manaslu è stato abbastanza. Nessun altro obbiettivo, nell’immediato, se non quello di tornare a casa al nostro lavoro.

Quale sarà il tuo prossimo ottomila?
Non lo so. Non siamo alpinisti che scalano con programmi a lungo termine. Quando portiamo a casa una vetta, ce la godiamo un po’. E poi, con calma, pensiamo alla prossima meta. Posso dire, però, che ci piacerebbe tornare in Nepal in primavera.

Surendra Paudyal

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