AlpinismoAlta quota

“È una grandissima salita”, Matteo Della Bordella ci racconta la spedizione al Siula Grande

Dopo la straordinaria e drammatica avventura dello scorso inverso sulla Est del Cerro Torre, Matteo Della Bordella aveva detto chiaramente che sarebbe stato difficile, almeno nel breve, trovare altri obiettivi alpinistici extraeuropei in grado di coinvolgerlo e motivarlo. Pochi mesi dopo, però, lo abbiamo visto di nuovo in azione fra le montagne del Sud America, impegnato nella scorsa estate ad aprire una nuova via sulla parete Est del Siula Grande, magnifica montagna di oltre 6000 metri della Cordillera Huayhuash, divenuta celebre per l’incredibile avventura narrata da Joe Simpson nel suo romanzo “La morte sospesa”.

Matteo era già stato al cospetto dell’imponente Est del Siula Grande nel 2017, per un’infruttuosa spedizione in compagnia dell’altro Ragno di Lecco Matteo Bernasconi e di Tito Arosio. In quell’occasione le condizioni della montagna avevano frustrato ogni tentativo di salita, ma evidentemente, nonostante l’insuccesso, qualcosa lo aveva stupito e conquistato, tanto che, quando nella primavera di quest’anno si è presentata l’occasione di farvi ritorno, Matteo non ha esitato a dire un nuovo “sì”. Nello scorso mese di luglio è quindi tornato in Perù in compagnia di Alessandro Zeni, Marco Majori, Filip Babicz e Stefano Cordaro, nell’ambito della spedizione organizzata dalla SMAM, la Sezione Militare di Alta Montagna dell’Esercito Italiano, per celebrare i 150 anni di fondazione del Corpo degli Alpini

Matteo, cosa c’è di così speciale e attraente in questa parete e in questa montagna?

La cordigliera Huayhuash è un posto incredibile, qui ci sono senza dubbio alcune tra le montagne più belle che io abbia mai visto e sono anche estremamente complesse e difficili da scalare. La Est del Siula Grande (6344m) era ancora inviolata e c’erano tutte le premesse per vivere una grande avventura, sia su roccia che su ghiaccio e misto. Un progetto dove ciascuno dei componenti della nostra squadra avrebbe potuto esprimere al meglio il proprio talento, per raggiungere un grande obiettivo comune.

Dopo la via sulla Est del Torre hai dichiarato che sarebbe stato difficile trovare un altro obiettivo altrettanto motivante dal punto di vista della difficoltà e dell’impegno. Che cosa ti ha convinto a prendere parte a questa nuova spedizione, ci sono elementi che vanno al di là delle semplici caratteristiche dell’itinerario?

È vero. Devo ringraziare la SMAM perché a marzo ero totalmente svuotato fisicamente e mentalmente e se non avessi avuto di fronte a me questa grande opportunità di intraprendere un percorso nuovo, probabilmente questa estate non avrei fatto spedizioni. Fin dal primo giorno in cui ci siamo trovati in caserma a Courmayeur si percepiva grande fermento ed entusiasmo… stava nascendo qualcosa di nuovo. Quest’anno ricorrono i 150 anni dalla fondazione delle truppe alpine e si voleva onorare l’anniversario con una salita importante. In pratica un treno mi stava passando davanti proprio in quel momento ed io volevo assolutamente salirci sopra. Questo mi ha fatto ritrovare energie, entusiasmo e motivazione.

La spedizione al Siula Grande ha rappresentato un’esperienza nuova con un nuovo gruppo e a contatto con una realtà particolare come quella di un corpo militare. Come hai vissuto questa nuova realtà? Ti sei trovato a confronto con un modo differente di vivere l’alpinismo e le spedizioni, rispetto a quello a cui sei abituato?

Sì, ci sono alcuni aspetti differenti nella gestione e nella preparazione della spedizione. A livello di preparazione, per i quattro mesi precedenti abbiamo fatto numerosi “raduni” per conoscerci meglio e scalare insieme, abbiamo anche affrontato un percorso di preparazione psicologica molto interessante. Avevamo assistenza medica sempre disponibile a distanza ed avevamo a disposizione strumenti per analizzare meglio il territorio (anche se li abbiamo usati poco). Tutti vantaggi per i quali siamo grati all’esercito. Tuttavia poi i valori e la filosofia di fare alpinismo sono gli stessi delle mie spedizioni precedenti. Abbiamo vissuto una grande avventura con un gruppo di persone affiatate, che da colleghi sono diventati anche amici. Ci siamo sempre mossi in maniera leggera e minimale, nel rispetto della montagna e non lasciando tracce del nostro passaggio. 

Il progetto con la Sezione Militare di Alta Montagna se non erro va oltre la spedizione, cosa si sta cercando di costruire?

Si sta cercando di costruire, o meglio di portare avanti, un gruppo. La SMAM esiste da più di quindici anni ed in passato ha portato a termine bellissime salite in tutto il mondo, dalla Patagonia, all’Himalaya. Dopo una fase di stallo il gruppo è ripartito con nuovi progetti. Nei prossimi mesi inizieremo a preparare una nuova spedizione, che avrà luogo, probabilmente, nel 2024. Per fare un paragone facilmente comprensibile a tutti, per me fare alpinismo con la SMAM è come per un calciatore giocare in nazionale. Oggi con il Perù è iniziato un nuovo ciclo, che speriamo porti a bei risultati anche negli anni a venire.

Quest’anno come nel 2017 vi siete trovati di fronte ad una parete particolarmente difficile, soprattutto sotto l’aspetto dei pericoli oggettivi. Ci racconti un po’ le caratteristiche di questa montagna e le condizioni che avete trovato?

Sì, dallo scudo di roccia cadevano molto molto spesso sassi di varie dimensioni, perlopiù piccoli, ma talvolta anche grandi. Abbiamo studiato a lungo la situazione, salendo ai piedi della parete in tre differenti occasioni. Dopo un tentativo in una giornata estremamente fredda, in cui abbiamo salito 100 metri, abbiamo deciso di rinunciare a salire direttamente la parete perché per noi il pericolo era troppo alto. Eravamo tutti d’accordo e nessuno voleva prendersi questi rischi.

Le condizioni difficili della parete con cui vi siete trovati ad avere a che fare secondo te hanno qualche relazione con il cambiamento climatico?

Sicuramente il cambiamento climatico ha giocato un ruolo importante. In questo specifico caso non era tanto il caldo, dal momento che le temperature erano sempre molto rigide, ma la scarsità di neve a causarci problemi. Sopra la parete c’è una di zona di nevai e detriti, mancando la coesione fatta dalla neve, i detriti precipitavano giù, anche di notte, con temperature di -20 gradi!

Dopo i primi tentativi sulla linea del vostro obiettivo originario avete deciso di rinunciare. Quali sono le ragioni di questa rinuncia? L’hai vissuta come una sconfitta, soprattutto di fronte al fatto che un’altra squadra poi ha salito la Est, oppure la consideri una scelta coerente con l’impostazione della spedizione è il tuo modo di vivere l’alpinismo?

Marc Toralles e Bru Brusom hanno salito lo scudo di roccia della parete Est e sono stati molto bravi. Hanno accettato il rischio ed hanno portato a casa una grande salita. Sono alpinisti di grande esperienza e ben consapevoli di quello che stavano facendo. In passato mi sono già trovato in situazioni con simili pericoli oggettivi importanti e ho preso anch’io decisioni diverse (es. ai Bhagirathi). Non c’è una regola nel prendere le decisioni. Non ci sono scelte giuste, né sbagliate. Devi valutare tutto quello che ti sta intorno e quello che ti senti tu. Per noi questa volta la decisione unanime era di non andare, loro invece hanno deciso di provare. La fortuna è stata anche dalla loro parte, come in tutte le grandi salite. Onore al merito.

Raccontaci un po’ della via che avete aperto in alternativa. Sembra comunque un itinerario molto bello e impegnativo!

È una grandissima salita. Molto lunga e completa. La linea evita di affrontare direttamente la parete, andando a cercare un percorso meno esposto alle scariche, lungo la direttrice di un grande pilastro sulla sinistra. Praticamente è come fare due vie diverse una sopra l’altra: la prima lungo il bellissimo pilastro di 700 metri calcare compatto, la seconda lungo un ripido pendio di 700 metri di neve inconsistente fino ai 6344 metri della cima. La prima parte è stata impegnativa per il freddo intenso e la difficoltà nel piazzare protezioni, che rendeva l’arrampicata molto psicologica. La seconda parte, ad affrontarla partendo riposati non sarebbe neanche così difficile, ma con tre giorni di scalata alle spalle, abbiamo dovuto davvero scavare nel fondo delle nostre energie per arrivare in cima e scendere in sicurezza la sera stessa. Questa per me è stata senza dubbio la parte più difficile, non per le difficoltà tecniche, ma perché, dal momento che non ti puoi proteggere, il terreno non permette errori e devi mantenere la concentrazione al massimo, anche quando il fisico è molto affaticato. Marco Majori è stato un compagno di cordata eccezionale, abbiamo avuto proprio una grande intesa!

La via ha un nome significativo e impegnativo: “Valore alpino”. Sembra un nome dai molteplici significati: da una parte il riferimento allo stile in cui è stata aperta la via. Dall’altro è chiaro il richiamo ai valori legati al corpo degli alpini. Hai avuto modo di percepire questi valori fra i tuoi compagni e nella gestione della spedizione?

Il legame tra di noi è stato molto forte. Stefano ed Ale hanno capito che questa salita (dopo il cambio di programma) non era un terreno su cui si sentivano troppo a loro agio (soprattutto nella parte alta della montagna) e così hanno messo da parte le ambizioni personali che normalmente ti farebbero dire “ma si proviamo ed al massimo scendiamo”. Con grande umiltà hanno deciso di fare da supporto a me e Majo, trasportando a valle tutti i materiali ed essendo pronti ad intervenire in caso di necessità. Il successo è stato davvero di tutto il gruppo.

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Un commento

  1. Mia valutazione.
    Bravi gli italiani a sinistra, ma meno bravi dei francesi sullo sperone e tutti questi molto meno bravi dei due spagnoli sulla parete, anche se un po’ a destra.
    I gruppi italiani e francesi erano dei militari professionali e gli spagnoli, che erano solo in due ?
    Per me è sempre meglio cercare di fare dei confronti per capire l’alpinismo, ma anche tutto il resto 🙂

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