Gente di montagna

Hazel Findlay: molto più che una dirtbag climber

La fortissima arrampicatrice britannica, protagonista di scalate estreme da El Capitan alla Groenlandia, ammalia per la profondità dei concetti che comunica. Come è accaduto al pubblico che l’ha potuta ascoltare anche in Italia

Nel mondo dell’arrampicata ad altissimo livello un posto di diritto spetta ad una giovane britannica che, dotata di un aspetto dolcissimo, nasconde dietro un faccino quasi angelico una determinazione ed una volitività che parecchi dei suoi colleghi le invidiano. Apprezza le luci dei riflettori solo fino ad un certo punto, preferendo piuttosto per esprimersi ambienti solitari ed aspri dove andare a cercare i propri limiti. 

Hazel Findlay, nata nel 1989, ha iniziato a scalare all’età di sette anni assieme al padre, Steve Findlay, sulle rocce “di casa” delle falesie costiere del Pembrokeshire. Ha iniziato a salire da prima all’età di undici anni, mentre a dodici è riuscita a chiudere il suo primo E1. Campionessa junior per sei volte nei circuiti di arrampicata sportiva, a sedici anni ha capito di poter trovare la propria dimensione nell’arrampicata tradizionale e soprattutto in quella esplorativa. Dopo la laurea in filosofia all’Università di Bristol si è dedicata anima e corpo all’arrampicata diventando atleta professionista e iniziando a girare il mondo alla ricerca di linee trad, possibilmente sconosciute o quasi. Prima donna a salire un E9 britannico nel 2011, prima britannica a salire in libera su El Capitan (comprese Free Rider e la Salathé Wall), ha effettuato numerose prime femminili in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Italia e in Spagna, dove è arrivata a chiudere vie di 8c. Prima salitrice anche di una via sull’Aiguille de Saussure, nel gruppo del Monte Bianco, le piace definirsi “un’amante dell’arrampicata, dal bouldering alle scalate in ambiente alpino, interessata in modo particolare all’impegno mentale che l’attività richiede”. È famosa presso il grande pubblico per queste sue imprese e per le campagne di scalate in compagnia di Alex Honnold in angoli remoti del mondo come, tra gli altri, il Sud Africa, la Norvegia e la Groenlandia.

Con un curriculum di così alto livello attorno al 2017 non potei esimermi dal provare a contattarla per chiederle di partecipare al progetto relativo all’Assassinio dell’Impossibile, libro di Reinhold Messner curato dal sottoscritto a da Alessandro Filippini nel quale avrebbero trovato posto riflessioni sull’impossibile di Messner e di altri più di quaranta grandi firme dell’arrampicata e dell’alpinismo mondiale. Lavorandoci assieme, quindi facendo la sua conoscenza per così dire “epistolare”, mi resi però subito conto che quel personaggio sapeva unire freschezza di linguaggio, pacatezza nell’esposizione e allo stesso tempo una singolarissima capacità carismatica di far crescere in chiunque la osservasse e la sentisse parlare il desiderio di salire. Mi balenò dunque l’idea di farla conoscere al pubblico italiano dal vivo e trovai subito terra fertile nelle serate alpinistiche di df-Sport Specialist, a Bevera di Sirtori, nel 2018.

L’invito in Italia

Hazel, dopo aver accettato di buon grado di partecipare al libro con un contributo, accettò più che volentieri di effettuare la presentazione che le avevo proposto ed il mio primo pensiero fu: “Bene, finalmente potrò conoscere questa ragazzina dal visetto tondo, quella che vista in foto sembra proprio l’immagine della figlia tranquilla, pulita, paffutella, da coccolare, quella che ogni genitore si augura di avere”.

Quella che nel 2018 vedo scendere dal furgone con cui era arrivata a Sirtori da Chamonix, dove vive con quello che era il suo ragazzo e che adesso è suo marito, è una ragazza davvero graziosa ed affabile, l’esatto opposto dell’immagine che ama usare per descriversi, ovvero quella della dirtbag climber, la scalatrice maledetta che vive ai margini della civiltà. La accompagno dunque all’hotel riservatole, presso il cui bar, davanti alla birretta di rito, ho il vero piacere di assistere allo straordinario dialogo tra lei e Matteo Della Bordella che iniziano a parlare di pareti e salite fantasmagoriche con la stessa nonchalance con cui un escursionista medio parla di una passeggiata fino al rifugio per una buona polenta.

Matteo poi, per l’apertura della serata, introduce Hazel come meglio nessun altro avrebbe potuto, lasciandomi il gusto di tradurre e allo stesso tempo anche di ascoltare.

Mi rendo immediatamente conto che la dolce ragazzina una volta salita sul palco subisce un’immediata metamorfosi, diventando una donna ancor più bella, caratterizzata da occhi che tradiscono forza e determinazione. Ad imporsi nel suo racconto non è solo la bellezza delle linee che lei decide di salire, oppure la grazia e la potenza con cui porta a termine le singole prestazioni. Ciò che più ammalia ed attrae nella sua esposizione è la capacità di comunicare e di far sentire in maniera realmente intima all’ascoltatore il suo pensiero e il suo modo di muoversi, di pensare, di salire, di provare emozioni. Il tutto all’interno di un termine che lei applica in maniera precisa, forte dei suoi studi di psicologia: il flow, termine concettuale che più che un flusso indica il fluire.
È dunque un fluire continuo, un’armonica sequenza di informazioni e di immagini di altissima qualità ciò che Hazel offre. La ragazza non è solo una brava scalatrice, è anche un’abile conferenziera e soprattutto una donna di cultura che sa applicare i propri studi “canonici” di psicologia alla sua vita da scalatrice. 

“L’arrampicata non è di grande utilità per gli scopi più elevati”

Con quello stile dolce seppur deciso, in un fluire continuo di concetti e di immagini rese mirabilmente chiare al di là di ogni barriera linguistica, Hazel delizia chi ascolta con riflessioni proposte anche per il libro ed il cui peso specifico col tempo invece di diminuire, aumenta:

L’arrampicata non è di grande utilizzo per gli scopi più elevati. Raggiungere una vetta non va di certo ad alleviare le sofferenze di molte persone, certo, non va a risolvere i grandi problemi dell’umanità. Eppure andare a scalare, per chi ci faccia attenzione, ha un valore in sé e per sé. L’arrampicata è un mezzo per poter mettere alla prova, allungare, ampliare e da ultimo per rendere più intensa la qualità della nostra esperienza cosciente permettendoci di essere meglio collegati con l’unico tempo che realmente ognuno di noi può dire avere, ovvero il qui ed ora”.

Il successo misurato da arbitri esterni non è un vero successo. Sei solo tu a sapere in che modo hai risposto al pericolo delle montagne, allo stress delle scalate su roccia. Sei tu e soltanto tu a sapere come hai reagito quando ti sei trovato ad affrontare la parte peggiore del tuo ego, così come sei soltanto tu e nessun altro a poter sapere davvero se hai reso possibile l’impossibile o se hai lasciato la questione in sospeso”. 

Non sono una che segue etiche da scalatori duri e veloci come quella di spit o no spit. Consentire che sia la natura stessa a creare le nostre sfide è la forma di arrampicata più pura, anche se poi riusciamo sempre a trovare dei modi per rendere più semplici le cose. Magari non andiamo a piazzare uno spit, però utilizziamo scarpette con suola di gomma, attrezzatura moderna e magnesite. Un alpinista che sale sull’Everest senza l’ossigeno, magari, è uno che ha utilizzato altri mezzi per facilitarsi la sfida”. 

Spero proprio che continueremo a vivere in un mondo dove esistono scalate possibili ed impossibili sulle quali ogni scalatrice potrà andare a mettersi alla prova. Nella nostra lotta per riuscire a preservare le sfide delle scalate selvagge non dobbiamo assolutamente dimenticare che le sfide più grandi per ogni scalatore continueranno ad esistere dentro di lui e saranno le sue motivazioni, il sapere fino a che punto uno possa essere influenzato dal proprio ego, l’essere in grado o meno di affrontare l’impossibile, il rischio e soprattutto il saper girare allegramente i tacchi ed andarsene senza essersi messa in saccoccia la vetta.”

Se andassimo a guardare con più attenzione nel profondo di noi stessi, di certo arriveremmo a vedere che moltissimi sono gli “impossibili” lasciati lì, per ognuno di noi, e che gli stessi sempre ci saranno.”

Concetti e modi di porsi nei confronti del verticale che fanno di Hazel una delle personalità più grandi a livello mondiale, ancor più dopo l’anno 2022 che l’ha vista partecipare ad una nuova avventura esplorativa con Alex Honnold, in Norvegia, schivare per un nonnulla un incidente potenzialmente mortale, risollevarsi dalla perdita del padre Steve e continuare ad invitare chi abbia voglia di progredire a seguire le sue lezioni di approccio mentale per superare i propri limiti in arrampicata. Il tutto con una professionalità sempre maggiore ed una dolcezza aumentata non tanto dal matrimonio, quanto dalla presa di coscienza del suo nuovo, naturalissimo eppure magico cambiamento di stato da ragazzina a madre prossima ventura.

Auguri Hazel!

Per approfondimenti:

  • R. Messner L’assassinio dell’impossibile  A cura di L.Calvi e A. Filippini Milano, Rizzoli, 2018
  • Luca Calvi, Lost in Translation, Roma, Edizioni del Gran Sasso, 2023
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