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Mario Cipollini, un velocista con la passione per la montagna

Vi chiederete, “cosa ci fa un velocista su Montagna.tv?”. I velocisti, per chi non li conoscesse, sono quelli che danno tutto negli ultimi metri prima dell’arrivo, quelli che si alzano sui pedali e si lanciano in volata regalando agli appassionati una delle emozioni più grandi del ciclismo. Un’esplosione di sensazioni, quasi. Il loro terreno è la pianura, non la montagna. Quando le pendenze si fanno impegnative arrancano dietro al gruppo, cercano di tenere il passo poi, dopo la discesa, inizia il loro gioco.

Ma veniamo a noi, Mario Cipollini è considerato uno dei migliori velocisti di tutti i tempi. Soprannominato “Re Leone” ha fatto la storia di un pezzo di ciclismo degli anni Novanta vincendo quasi 200 corse, tra cui figurano oltre quaranta tappe del Giro d’Italia, una dozzina al Tour de France e tre alla Vuelta a España. A queste va aggiunto un Campionato del Mondo e una Milano Sanremo. Per tre volte si è anche aggiudicato la classifica a punti del Giro. Oltre a tutto questo Mario è un grande appassionato di montagna. Non parliamo di scalate, ma di terre alte vissute come relax e distacco. Per lui, cresciuto nel lucchese, la montagna è quella dei boschi e dei sentieri appenninici. All’inizio, ci racconta, era il piacere della caccia. “Poi, verso la metà degli anni Novanta mi sono chiesto: ma che diritto ha uno con un pezzo di ferro in mano di andare ad ammazzare un tordo? E così ho smesso”.

Non ha però mai dimenticato i suoi boschi, quelli in cui (ci racconterà) si allenava divertendosi. “Quando tornavo, dopo i mesi stressanti passati nel mondo del ciclismo, era sempre un piacere andare nel bosco. Sentire il cinghiale, gli uccelli. Raccogliere qualche castagna”.

Mario, visto che sei uno specialista ti vorremmo subito chiedere di spiegarci a modo tuo cos’è una “volata”…

“È un’esplosione di energie. Il velocista da tutto in quegli ultimi minuti che precedono l’arrivo e sono minuti intensi. Pochi istanti in cui tutto si concentra sui pedali, in cui si canalizzano gli sforzi e la rabbia sportiva spingendo al massimo per primeggiare sugli avversari.” 

La montagna è invece un terreno distante per voi?

“Si potrebbe dire che le salite sono il nostro terreno di difesa mentre la pianura è quello d’attacco. Sono le caratteristiche genetiche, le fibre bianche, a fare un velocista. In montagna serve l’esatto opposto; serve leggerezza e resistenza prolungata allo sforzo. I pesi degli atleti poi fanno la differenza.”

Parliamo un po’ del ciclismo di ieri e di quello di oggi. Com’è cambiato rispetto ai tuoi tempi?

“Si corre sempre in bicicletta. Certo i sistemi si evolvono, seguono un po’ quelli che sono i cambiamenti della società. Anni fa in Italia c’erano dieci e più squadre di professionisti, al momento non ne abbiamo nemmeno una.”

Come mai?

“Sono lievitati i prezzi e i costi di gestione del team professionistico e noi siamo rimasti fermi sul cavalletto, bloccati. Un tempo eravamo in alto e da lassù non ci siamo resi conto che gli altri si stavano organizzando. Ci hanno surclassati quando è cambiato il meccanismo degli investimenti, che è passato dai piccolo sponsor alle grandi organizzazioni estere, con mezzi di molto superiori. Oggi noi non abbiamo una squadra mentre molte nazioni hanno quelle che sembrano delle nazionali. La Francia ha 4 squadre, con sponsor importanti alle spalle.

Così da noi il ciclismo ha perso il suo posto in serie A, e questo fa ovviamente soffrire tutta la filiera. Perché la squadra di serie A fa si che ci sia quella di serie B, quella di serie C e così a cascata fino ai giovanissimi. Piccoli che vengono inseriti in un programma di crescita che li porta verso il professionismo.”

Giusto iniziare dai bambini?

“Si, perché è un percorso di crescita che inizia da piccoli semplicemente andando in bici. I Paesi del nord Europa hanno nella bici un mezzo di locomozione naturale che porta poi a identificare i talenti. La usano per andare a scuola tutti i giorni, anche sotto la pioggia. A Londra la gente va in bici e si sente figa. In Italia no, non è da figo andare in bici. È una questione culturale.”  

In questo senso il lockdown è stato d’aiuto…

“Il lockdown è stato utile a farci capire che ci sono cose che vanno tirate fuori dal cassetto, come la bici. Ha fatto comprendere a molte persone che pedalare è bello. Il problema è che per arrivarci è servito il lockdown mentre altri Paesi già lo sapevano. Non a caso non abbiamo piste ciclabili e le amministrazioni oggi devono correre ai ripari costruendo qualcosa di collaterale ad altri sistemi.

Noi che abbiamo insegnato a tutti ad andare in bici, a costruirle. Siamo stati noi a dare il là e ora siamo rimasti inermi a osservare gli altri. La politica sportiva dovrebbe farsi delle domande, se ti fermi al presente sei già vecchio. Devi guardare avanti, adattarti, porti degli interrogativi.”

È questo che negli ultimi tempi ti ha spinto verso la promozione del ciclismo giovanile?

“Si, mi sono avvicinato ai giovani in quest’ultimo periodo. È successo in modo istintivo perché ho percepito che il problema Coronavirus ha sicuramente cambiato la vita di tanti, ma soprattutto di bambini e ragazzi. Ha colpito la catena più debole, rappresentata dai più piccoli.

Mi sono allora permesso di riflettere e pensare che il ciclismo giovanile, basato sugli sforzi e la passione di poche persone che si danno per gli altri senza interessi personali, potesse subire una perdita a causa di questa situazione. La mancanza di gare e di strutture per mantenere i più giovani nella passione avrebbero potuto infragilire ulteriormente questa già debole catena. Allora ho cercato di trasferire un po’ della mia passione ai ragazzi.”

Cosa vedi nei giovani d’oggi?

“Potrei essere quasi un nonno per loro, ma vedo un grande appeal verso la tradizione ciclistica da parte loro. Quando magari arrivo vestito da ciclista si appassionano. Sono attratti dalla bici e da tutto quello che le orbita intorno. Spero che essergli vicino possa essere d’aiuto nell’accrescere la passione.  

Pensando più in grande spero si possa trovare una soluzione a livello federale per investire sui giovani, finché non lo si fa non ci può essere speranza per il futuro.”

Torniamo a parlare di te. Lasciato l’agonismo hai creato una tua linea di bici, tra cui compare anche un modello gravel. Per un purista della strada come te non è una scelta strana?

“Le moderne biciclette sono un concentrato di tecnologia incredibile e presentano una forbice talmente ampia che possono e devono essere trasversali: da strada, da pista, mountain bike, gravel. Settori diversi, che si evolvono differenziandosi sempre più. Anche nella moto c’è chi ama quelle da corsa e chi le Harley, due modi differenti di andare in moto. Con la bici succede la stessa cosa.”

La gravel rappresenta un mondo molto più legato alla montagna rispetto a quello della bici da strada…

“È un movimento nuovo che si sta affermando e che si affermerà ancora di più in futuro.

Rappresenta il modo per l’essere umano di ristabilire un contatto con la natura, ritornando alla sua condizione nomade. Ci siamo fermati nelle città, ma la storia umana ci ricorda che prima di essere stanziali ci spostavamo. La gravel permette di tornare a quella condizione. È un tipo di bici che regala la sensazione dell’avventura, che non deve per forza essere una dimostrazione di velocità. Gravel significa anche un tipo di vita diversa.

Io sono un estimatore di ogni tipo di bici. Apprezzo il ciclista che cerca la bici al top, il ragazzino che inforca un mezzo semplice per farsi un giro e mi piacciono quelli che viaggiano sulle gravel. Ne vedo tanti con le borse pedalare lungo la Via Francigena, che passa non molto distante da casa. È un tipo di passione diversa, magari andare sulla bici superleggera non gli interessa ma poter avere un mezzo con cui muoversi sull’asfalto, sulle strade bianche o sulle semplici vie sterrate lo intriga.”

Sei solo un estimatore o ti piace anche muoverti sulla ghiaia?

“Io ho sempre amato andare fuori strada. Abito ai piedi del Monte Serra. Una collinona che raggiunge i mille metri di quota, un punto di riferimento per noi ciclisti. Su questa montagna ci sono diversi versanti, tra cui alcuni sterrati diventati il mio divertimento negli anni da professionista.

A quel tempo mi feci dare una bici con le stesse misure del telaio da corsa ma con freni da cross. Così potevo sfruttare per allenarmi anche le giornate in cui magari pioveva. Prendevo questa bici, con ruote da sterrato e andavo su per i boschi. Saranno stati i primi anni Novanta e questa era un ibrido che mi permetteva di salire su per queste tracce senza traffico. Per me era comunque allenamento, ma non era stressante, mi divertivo. Ogni tanto mi fermavo a raccogliere qualche castagna, sentivo il cinghiale passare, era rilassante.”

A proposito, ci parli della passione per la caccia poi svanita?

“Ho smesso a metà degli anni Novanta, quando ho capito che non mi sembrava giusto.

Io sono cresciuto in un paesino di 60 anime, in mezzo agli ulivi. Le attività esterne a quelle lavorative erano minime. I miei genitori erano contadini, passavano il tempo nella campagna poi, si andava a caccia. Un modo per riempire la vita.

La caccia viene vista male, ed è giusto che sia così, ma dentro di se conserva anche una versione romantica. A me piaceva andare in anticipo rispetto agli altri. Così potevo godere dell’alba, del sorgere del giorno. Mi piaceva la scoperta, come muovermi nel bosco al buio. Una piccola avventura in cui ti mettevi alla prova. I boschi di notte sono impressionanti, ma ti permettono di relazionarti molto di più con il mondo che ti circonda. Nel mio caso la caccia in se veniva dopo tutto questo, principalmente ricercavo le sensazioni di quando ero bambino. Le stesse che cerco ancora oggi quando mi avventuro in quel mondo naturale.”

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3 Commenti

  1. questo interesse di cipollini per la corsa in montagna è sospetto,sta preparando una fuga dopo che verrà condannato per aggressione e stalking alla ex moglie?

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