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50 anni fa nasceva lo scalatore Marco Pantani, “il Pirata”

Giro d’italia 1994, il 4 giugno si corre la 14esima tappa da Lienz a Merano. A un chilometro dalla vetta di Passo di Giovo un ragazzino di 24 anni scatta e allunga con incredibile facilità. Veste la maglia della Carrera e si chiama Marco Pantani. È uno scalatore, il miglior scalatore nella storia del ciclismo.

Oggi avrebbe compiuto 50 anni “il Pirata”, come tutti ci eravamo abituati a conoscerlo. Chino sulla bici, bandana colorata sul capo e orecchino luccicante al sole. Un vero bucaniere. Un buono, un ragazzo come tanti cresciuto in provincia. Un atleta divenuto simbolo per la sua capacità di rappresentarci tutti, di esaltarci con le sue vittorie, con i suoi scatti impossibili. Un poeta maledetto delle due ruote che scriveva pagine epiche di malinconiche vittorie. I suoi risultati migliori nelle gare a tappe, lo dimostrano un bronzo ai mondiali in linea del 1995 e la doppia vittoria nel 1998 sia al Tour de France che al Giro d’Italia. Un’impresa quest’ultima riuscita solamente a pochi altri come Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Stephen Roche e Miguel Indurain.

Lo sport era la sua vita, il ciclismo lo è diventato non appena ha messo il piede su un pedale. Le sue doti di scalatore erano uniche, il migliore in salita. Nonostante questo la sua prima vittoria fu su un tracciato totalmente pianeggiante. “Da giovane non era ancora il campione che poi è diventato, ma dava già dei segnali” ricorda Mauro Farabegoli fondatore del team Spazio Ceramica di Gambettola per cui correva anche un Pantani adolescente. Erano le sue prime pedalate e già dimostrava di avere un motore tarato per alte prestazioni. “Non era mai stanco. Quando facevo fare percorsi lunghi per allenare la resistenza era uno dei pochi a non lamentarsi. Un segnale che poi ha trovato conferma nel suo grande talento. Con Farabegoli Pantani si è formato e ha imparato a gestire energie e risorse in sella. “Con noi ha collezionato 39 secondi posti e una vittoria. Aveva una condotta di gara molto particolare: spesso, fino agli ultimi chilometri, rimaneva a pedalare in ultima posizione. Poi scattava in salita e faceva il vuoto, capitava però che partisse con un pelo di ritardo e qualcuno davanti gli arrivava sempre”. Quello di Farabegoli è quasi il ricordo paterno di chi ha avuto la fortuna di veder nascere la storia di un mito. “Conservo con soddisfazione i ricordi legati a Marco. Ho avuto il privilegio di stare vicino a un ragazzo a cui la natura ha fatto un dono enorme. Un dono che nel tempo l’ha allontanato e l’ha fatto ritrovare solo, in un vuoto che non aveva nulla a che vedere con quello che “il Pirata” si creava attorno quando si alzava sui pedali e scattava andandosi a prendere la testa della corsa. Via la bandana e iniziava l’attacco lì, dove la salita si faceva più impegnativa, dove l’emozione era più forte, la sofferenza totale. Pantani era istinto, azzardo, lui attaccava quando la logica avrebbe suggerito di aspettare. “Il Pirata” regalava sogni anche a chi della bicicletta non fregava nulla, faceva tremare d’adrenalina lo spettatore più annoiato, commuoveva nella malinconia della sua vittoria.

Non lo vinse quel Giro del 1994, arrivò però secondo in classifica generale lasciando il suo nome ben impresso nella mente di appassionati e addetti ai lavori. Si chiamava Marco Pantani e stava scrivendo l’ultimo capitolo di un modo di intendere il ciclismo che oggi non esiste più.

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