Alpinismo

Everest: si muore di più dopo la cima

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WASHINGTON, Usa — La maggior parte delle morti sull’Everest avviene a causa di edemi cerebrali, perlopiù durante il giorno della cima o quello successivo, quando subentra anche un calo di concentrazione e lucidità. Quello che molti alpinisti sanno bene, ora è confermato anche da uno studio condotto da un team internazionale presso il Massachusetts General Hospital degli Stati Uniti, che ha studiato le 212 morti accadute sulla montagna più alta del mondo dal 1921 al 2006. E ha scoperto delle coincidenze interessanti.

I risultati della ricerca, coordinata dal luminare americano Paul Firth e condotta da scienziati americani, inglesi e canadesi, sono stati pubblicati nei giorni scorsi sul prestigioso British Medical Journal.
 
"Sebbene sia difficile stabilire le cause esatte di alcune morti – ha detto Firth -, la maggior parte sono ascrivibili all’edema cerebrale. La carenza di ossigeno provoca delle fuoriuscite di fluidi dai vasi sanguigni che fanno rigonfiare il cervello e provocano confusione, mancanza di coordinamento e coma".
 
Sintomi comuni, questi, alla maggior parte delle persone decedute nella zona della morte, intorno agli ottomila metri di quota. E che, secondo gli scienziati, sarebbero anche all’origine della maggior parte degli incidenti e delle cadute fatali che avvengono a quote molto alte.
 
Questo risultato, per certi versi, ha sorpreso gli scienziati. "Ci aspettavamo un’incidenza maggiore di problemi polmonari – ha spiegato Firth -, invece la maggior parte delle persone morte lassù ha avuto problemi cerebrali. Acuiti, peraltro, dal calo di tensione e di lucidità che segue al raggiungimento della cima: molte morti, infatti, si registrano il giorno immediatamente successivo alla cima: circa l’80 per cento".
 
"Questa ricerca forse potrà salvare qualche vita – ha auspicato uno dei ricercatori, Kent Moore, della University of Toronto -. Spero che gli alpinisti, di fronte alla prova dei numeri, prestino ancor maggiore attenzione all’acclimatamento, alla preparazione psicologica, alla possibilità di riunciare alla vetta se non ci si sente bene durante la salita. Insomma, a non tirare troppo la corda".
 
Lo studio ha rilevato anche un’altra interessante coincidenza: la maggior parte delle morti avvenute nei pendii sommitali riguardano gli alpinisti, quelle avvenute più in basso, invece, riguardano gli Sherpa. "Gli Sherpa in genere hanno un acclimatamento migliore – spiega Moore -, in cima hanno meno problemi degli alpinisti. Sono invece più esposti a rischi oggettivi, per esempio valanghe o crolli di seracchi, perchè transitano molte volte dal campo base ai campi alti per trasportare viveri e materiali".
 
Sara Sottocornola

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