Alpinismo

Agostino Da Polenza racconta la spedizione al K2. “Le ragazze potevano farcela, grazie CAI!”

La vetta nel 1983, poi la direzione di sei spedizioni al K2 (senza contare le missioni scientifiche). Da Polenza ha vissuto gli anni di Renato Casarotto, Lorenzo Mazzoleni e Kurt Diemberger. Quest’anno è tornato con le alpiniste italo-pakistane.

Quarantuno anni fa, il 31 luglio 1983, un giovane alpinista bergamasco arriva sugli 8611 metri del K2 dopo aver percorso il selvaggio versante cinese della montagna. Agostino Da Polenza, che compie l’impresa insieme al ceco Joska Rakoncaj, è il quarto italiano ad arrivare lassù dopo Achille Compagnoni, Lino Lacedelli e Reinhold Messner, che ha calcato la vetta nel 1979.

Per qualche anno Da Polenza accarezza l’idea di diventare il primo uomo a salire il K2 sia dalla Cina sia dal Pakistan (il titolo, nel 1986, andrà al suo amico Joska), poi si concentra sul ruolo di capospedizione. Dirige il team di Quota 8000 che arriva in cima senza danni nella tragica estate del 1986, fa lo stesso dieci anni più tardi quando il giovane alpinista lombardo Lorenzo Mazzoleni cade e muore dopo aver raggiungo la cima.

Poi Da Polenza dirige la spedizione nazionale del 2004, che celebra i 50 anni dalla prima ascensione, e quella del 2014 nella quale, per riconoscenza, un team italiano supporta l’ascensione di cinque pakistani, che comprende il giovane Alì Durani.

Era logico e giusto che fosse ancora lui, quest’anno, a dirigere la spedizione “K2 70” del Club Alpino Italiano. Pochi giorni fa Agostino Da Polenza è atterrato a Malpensa di ritorno da Islamabad. È un piacere e un onore intervistarlo sulla spedizione di quest’anno, e sul suo rapporto con una montagna straordinaria.

La sua prima esperienza sul K2 risale al 1983, dal versante cinese. Ma lì non era il capospedizione. Oppure sì?

Ufficialmente ero il vice di Francesco Santon, ma lui è rimasto a casa, in Veneto, e ci ha raggiunto solo alla fine. Quindi sì, sono stato io a dirigere un team straordinario, che comprendeva personaggi come Kurt Diemberger, Giuliano De Marchi e Sergio Martini. Una grande esperienza, in un luogo fuori dal mondo.

Quando è tornato nel 1986 era il capo anche dal punto di vista formale. Un’annata terribile, con record, vie nuove e ben 13 morti…

Era una spedizione di Quota 8000, un progetto che puntava a salire tutte le grandi cime con un team di professionisti. Siamo andati prima al Broad Peak per acclimatarci, decenni prima che diventasse normale.

Quell’anno al K2 è successo di tutto, voi vi siete salvati. Perché? E qual è stato il momento più doloroso?

Gli alpinisti del team del 1986 andavano come treni, si muovevano sul K2 come se facessero parte della montagna. Quest’anno ho rivisto la stessa cosa in Benjamin Védrines. Saliva e scendeva tranquillo, con qualunque tempo… Un momento doloroso è stata la morte di Renato Casarotto in un crepaccio. Un altro la valanga che ha ucciso due americani sulla Magic Line. Noi eravamo in tenda alla Sella Negrotto, poco più in alto.

Passiamo al 1996, l’anno di Lorenzo Mazzoleni. Quest’anno, sul ghiacciaio, avete ritrovato il suo zaino.

Quando abbiamo trovato lo zaino ho pianto senza fermarmi per due ore. Mi consola sapere che il corpo di Lorenzo è dentro il ghiacciaio, fa parte del K2.

Cos’è andato storto nel 1996?

Sembrava la spedizione perfetta, e Lorenzo l’aveva voluta a tutti i costi. Il giorno della cima era troppo stanco per salire, ho provato a dirglielo dal campo-base ma lui ha spento la radio. È arrivato in cima tardi, è sceso, probabilmente alla fine del traverso è caduto, e per andare leggero non aveva la piccozza. Giampietro Verza e Aldo Verzaroli sono saliti a cercarlo rinunciando alla cima, hanno visto il suo corpo dall’alto, ma non era possibile recuperarlo.

Il passo successivo era la spedizione del 2004, quella del cinquantenario. Un grande successo, anche mediatico.

Vero, erano gli anni di Ev-K2-CNR, nata grazie ad Ardito Desio, c’è stata un’ottima collaborazione con il Governo italiano, abbiamo organizzato due spedizioni al K2 (da sud e da nord) e una all’Everest. È stato un grande successo. Posso aggiungere una cosa?

Certo!

La spedizione al K2 da nord è stata costruita su misura per Nives Meroi. Nei giorni scorsi ci ha criticato, ed è legittimo. Ma si è dimenticata che anche lei ha partecipato a una spedizione ufficiale e celebrativa.

Poi arriviamo al 2014, sessant’anni da Compagnoni e Lacedelli, con cinque pakistani e Michele Cucchi sulla cima.

Un’altra grande avventura. Un anno prima Ali Durani ha proposto l’idea a Stefania Mondini, la mia compagna, e lei si è entusiasmata e mi ha convinto. L’arrivo del team sulla vetta, con le preghiere al Dio dei cristiani e ad Allah, mi ha commosso.

E poi c’è la cronaca, la spedizione del 2024 che si è appena conclusa. C’è un motivo per cui le alpiniste italiane e pakistane non hanno raggiunto la cima?

Intanto vorrei dire che l’idea è stata di Maurizio Gallo, guida alpina e ingegnere, molto legato al Pakistan. Poi che c’è stata un po’ di sfortuna, per esempio nella polmonite che ha colpito Samina Baig, l’unica pakistana con esperienza di altissima quota, che invece è stata evacuata verso Skardu. Sapevamo che le altre erano meno forti e preparate di lei.

Ma Anna Torretta, Cristina Piolini, Silvia Loreggian e Federica Mingolla sarebbero potute arrivare sulla cima?

Sì, e Silvia è arrivata veramente a un passo dal farcela. Credo che sia mancata l’esperienza. Il 26, quando sono salite dal campo-base, hanno tenuto un ritmo troppo forte, e invece se punti alla cima del K2 devi andare piano. Silvia ha preso delle medicine, e invece a quelle quote devi farlo il meno possibile. Oltre i 7300 metri è stata male allo stomaco, si è spaventata ed è scesa.

Cosa mi dice di Alì Durani, Federico Secchi e Marco Majori?

Alì lo conosco da tanti anni, ha lavorato con gli sherpa di Seven Summit Treks ad attrezzare la via, in cima ha fatto un servizio fotografico con le bandiere del Pakistan e dell’Italia e con il gagliardetto del CAI. Secchi e Majori erano entrati nella nostra squadra, il tentativo alla cima è stato un tentativo a quattro, loro due con Federica e Silvia.

Questo in Italia non si era capito, grazie per averlo raccontato. Cosa è successo dopo la rinuncia delle due alpiniste?

I due uomini hanno continuato, e Federico è arrivato in cima tardi, intorno alle 16.30, seguito dai droni di Riccardo Selvatico ed Ettore Zorzini. Hanno fatto l’errore di portarsi gli sci, non si poteva scendere a quell’ora, con quella neve e con quelle nuvole. Per scendere con gli sci serve un drone che cerca la via giusta.

Cosa è successo a Marco Majori?  

Ha finito il traverso che segue il Collo di Bottiglia, era esausto. Ho fatto il capospedizione, gli ho ordinato di scendere, gli ho detto che se avesse continuato sarebbe morto. In discesa è caduto in un crepaccio sulla Spalla, è uscito da solo, si è ritrovato su un pendio ripido ma è riuscito a fermarsi. Federico lo ha raggiunto, ha scavato una truna, lo ha protetto con i resti di alcune tende.

Poi c’è stata una spedizione di soccorso, giusto?

Sì. Benjamin Védrines era al campo 2, è risalito a tempo di record con uno dei suoi compagni, il giorno dopo sono scesi tutti insieme. Nella parte bassa c’è stata una grande mobilitazione, al campo-base abbiamo festeggiato.

Com’è stata la convivenza con le spedizioni commerciali? C’è molta differenza con il passato?

La differenza c’è, perché oggi ci sono solo le spedizioni commerciali. Io sono amico di Chhang Dawa Sherpa di SST, è andato tutto bene. L’unico equivoco è stato all’inizio, noi abbiamo attrezzato i primi 1000 metri dello Sperone Abruzzi, le spedizioni commerciali pensavano che avremmo chiesto dei soldi. Invece no, le corde fisse sono patrimonio di tutti.

Che differenze ci sono tra le spedizioni del 2004 e del 2024? Cosa pensa del ruolo del CAI in entrambe?

Nel 2004 la spedizione è stata organizzata dallo Stato, con la collaborazione di Ev-K2-CNR, del CAI e di altri. Quella del 2024 è stata una spedizione promossa e organizzata dal Club Alpino Italiano, al quale va la mia gratitudine. Sarebbe stato bello arrivare in cima, ma il K2 è così.

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