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L’arrivo di fronte a Sua Maestà l’Everest – La strada per l’Everest

A un certo punto, sul sentiero dell’Everest, ci si accorge di essere entrati in un mondo diverso. E’ una sensazione soggettiva, che qualcuno prova già atterrando sulla pista di Lukla (o ancora prima, nel volo da Kathmandu o da Ramechhap), e che per altri arriva alla fine, sul sentiero del Kala Pattar. E’ un percorso elementare, tra pascoli e pietraie, che sull’Appennino o sulle Alpi si farebbe in un’ora. Ai piedi dell’Everest, invece, la quota rende la salita complicata. I polmoni s’infiammano e chiedono di fermarsi ogni pochi passi. La testa gira, le gambe sono meno precise, l’ora di cammino raddoppia o triplica. L’alta quota, prima di tutto, ti fa sentire piccolo. 

I chorten che ricordano chi non c’è più

E’ la quarta volta che vengo da queste parti, e per me, oggi come in passato, il punto di svolta è più in basso. Due ore dopo aver lasciato Pheriche, il sentiero ne incontra un altro che proviene da Dingboche, poi traversa il torrente che sgorga dal ghiacciaio del Khumbu e sale fino ai lodge di Dughla. Segue una salita a larghe svolte, indicata da ometti di pietre. La valle piega destra, l’Ama Dablam scompare, sorvegliano la zona il Taweche e il Cholatse, 6495 e 6335 metri. Più in alto, dove il terreno rimpiana, inizieranno a dominare il paesaggio l’aguzzo Pumori, 7165 metri, e le gigantesche architetture di ghiaccio del Nuptse. 

Mentre si sale un passo dopo l’altro, si scopre di aver superato i 4810 metri del Monte Bianco, una quota che per noi europei è mitica. Una diagonale porta a dei chorten collegati da bandiere di preghiera, che il vento fa sventolare con forza. La pendenza diminuisce, e il panorama si apre. Ma lo sguardo, prima che sulle cime, si posa su decine di chorten e di massi decorati da targhe e lapidi. Fin dagli anni Cinquanta, il pianoro ha visto nascere decine di memoriali che ricordano gli alpinisti caduti sull’Everest e sulle altre cime del Khumbu. Una targa ricorda il bulgaro Hristo Prodanov, scomparso nel 1984 dopo aver raggiunto l’Everest da solo per la cresta Ovest. Un’altra commemora il suo connazionale Ivan Tomov, nato pochi giorni dopo la morte di Hristo, e scomparso nel 2019 sul Lhotse. Il luogo è commovente, e anche i trekker frettolosi si fermano a osservare e a fotografare targhe e chorten. Molti memoriali sono raggruppati per nazionalità, Sherpa con Sherpa, giapponesi con giapponesi, russi con russi. E’ sola, invece, la targa che ricorda il britannico Robin Haynes Fisher, scomparso nel 2019, nei giorni delle file fotografate da Nirmal Purja. A ucciderlo, probabilmente, è stata la fine dell’ossigeno nelle bombole. Lo ricordano le parole dell’Amleto di Shakespeare. “I sogni sono veramente ambizioni, perché la vera sostanza dell’ambizione è soltanto l’ombra di un sogno”.

Il laboratorio Piramide         

Oltre i chorten, il sentiero dell’Everest diventa pianeggiante, e segue il vallone di erba e sassi che costeggia il ghiacciaio di Khumbu. In mezz’ora si arriva al bivio per il Cho La, il passo di 5368 metri che porta nella valle di Gokyo. Altra mezz’ora e si arriva ai lodge di Lobuche, 4910 metri, in una piana acquitrinosa. Ancora venti minuti, e un cartello indica il sentiero per la Piramide, il laboratorio scientifico più alto del mondo, un’eccellenza italiana che da anni, per brutte vicende nostrane, è stata quasi abbandonata. Quando la visito il lodge accanto alla costruzione funziona, ma non sono ancora arrivati fin qui né Giampietro Verza, la guida che si occupa della manutenzione di macchinari e sistemi, né la spedizione scientifica organizzata in Abruzzo, che segnerà la rinascita della Piramide stessa. So cosa aspettarmi, e non mi stupisco. Altri trekker (parlo con francesi, tedeschi, canadesi e spagnoli) scuotono la testa delusi. Chi passa da qui, anche se non si ferma per la notte, può proseguire per un sentiero che supera un gradino, aggira un crinale, e prosegue a mezza costa in vista del Pumori, del Nuptse e di altre magnifiche vette. 

Da qui impressiona la superficie del ghiacciaio del Khumbu, dove tra ghiaie e vele di ghiaccio spiccano decine di laghi e laghetti, alcuni dei quali molto grandi. Non conosco i dati sul ritiro della colata, so che i GLOF (Glacial Lake Outburst Floods), le piene causate dall’improvviso svuotamento di questi bacini, sono uno dei problemi più seri legati al cambiamento climatico in Himalaya. Ci sono rischi immediati? Funzionano i sistemi di allarme? La Piramide langue, ma ai piedi dell’Everest c’è un gran bisogno di scienza. 

Tutto il resto è magnifico, frequentato e faticoso. A un’ora o poco più da Lobuche, il sentiero sui prati lascia il posto a un percorso a saliscendi sulle morene del ghiacciaio di Chang Ri. Segue la conca di Gorak Shep, 5180 metri, dove il lago del dopoguerra è stato sostituito da un pianoro di sabbia e fango. Vent’anni fa qui sorgeva un solo, rudimentale lodge. Oggi ce ne sono cinque o sei, che continuano a essere ampliati. Ma le regole del trekking di massa sono queste. Oltre Gorak Shep, i camminatori percorrono un sentiero a mezza costa, in vista della cima dell’Everest che compare oltre i merletti di ghiaccio del Nuptse. Dopo un’ora e mezza, una rampa scende fino al ghiacciaio. Aggirato unlaghetto glaciale si raggiunge un macigno decorato da bandiere di preghiera, dove una scritta indica “Everest Base Camp, 5364 metres”. Quasi tutti si fermano qui, tra raffiche di foto ricordo e di selfie. In realtà il vero campo-base è più avanti, accanto alla svolta del ghiacciaio e ai piedi dell’Icefall, la seraccata dell’Everest. In autunno si può continuare il saliscendi, avvicinandosi a fotogeniche vele di ghiaccio. In primavera, quando qui si accampano decine di spedizioni, è facile pensare che gli alpinisti e gli Sherpa non vogliano orde di camminatori curiosi tra i piedi. 

Il tetto del Mondo

L’indomani, prima di tornare a valle, c’è un ultimo rito da seguire. Dopo una gelida notte a Gorak Shep, i trekker imboccano il sentiero che sale verso il Kala Pattar. Dopo una rampa ripida, si continua per un terrazzo erboso, e poi a strette svolte tra i massi. Alla fine, a 5545 metri di quota, accolgono altre bandiere di preghiera, un terrazzo di lastroni rocciosi, un panorama con pochi paragoni nel mondo. Sulle pietre del Kala Pattar (“Rocce nere”) incombono i ghiacci del Pumori, alla sua destra si alza la pala di neve del Lingtren. Seguono il Lho La, 6026 metri, l’invalicabile passo sul confine con il Tibet, poi la cresta Ovest della cima più alta della Terra. Ai suoi piedi si vede l’Icefall, più a destra il Nuptse ha preso un aspetto aguzzo. 

Al centro dello spettacolo, però, è Sua Maestà l’Everest, che da qui si mostra in tutta la sua imponenza. La piramide sommitale, formata da rocce quasi nere, culmina nel merletto di neve della vetta. A destra sono il pianoro di neve del Colle Sud, e poi il Lhotse. Al centro spiccano il ripido pendio di neve e ghiaccio e la rocciosa muraglia sommitale della parete Sud-ovest, vinta nel 1975 dai britannici di Chris Bonington. Qui, d’altronde, chi ama la storia dell’alpinismo può sedersi ad ammirare e a studiare per ore. 

A turbare tanta meraviglia, però, è lo stesso rumore che ci ha già disturbato nella valle tra Lukla e Namche. Fin dall’alba, il solenne silenzio dell’alta quota è turbato dall’andirivieni di decine di elicotteri. Alcuni sfiorano il Kala Pattar, scendono per consentire ai passeggeri di ammirare l’Icefall, poi scendono sulla sinistra orografica della valle. Altri, dopo la prima piroetta, atterrano sul terrazzo erboso, e fanno scendere i turisti che possono fotografarsi con l’Everest e il Nuptse sullo sfondo. Non li conto, ma in tre ore, certamente, i passaggi sono più di cinquanta. 

Che dire? So che l’industria degli elicotteri in Nepal è importante, e che la sua esistenza garantisce i soccorsi. So che sugli altri sentieri dell’Himalaya il problema non c’è, e basta andare altrove per ritrovare il silenzio. A parte la mia delusione personale, però, vedo il fastidio sul volto degli altri trekker, una sensazione che può avere conseguenze negative sul turismo. E’ possibile trovare una soluzione e ridurre il fastidio? Sulle Alpi ci siamo quasi riusciti, e l’eliturismo e l’heliski sono confinati in zone limitate. Tra gli USA e il Canada gli elicotteri volano, ma gli ampi spazi consentono a escursionisti e alpinisti di percorrere le montagne in pace. Il Parco Nazionale Sagarmatha, inflessibile con chi vorrebbe usare un drone, non riesce a imporre regole agli elicotteri. Possono intervenire i Club Alpini, l’UNESCO, l’UIAA che non dà segno di vita da tempo? Non so se è possibile, ma dovrebbero senz’altro provarci. Settant’anni dopo Hunt, Hillary e Tenzing, l’Everest merita un po’ di silenzio e rispetto.

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