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Himalaya e cambiamenti climatici. Il collasso del ghiacciaio indiano allarma il Nepal

“É ancora troppo presto per avvallare ipotesi sulle cause dell’incidente”, dichiarava nella giornata di lunedì 8 febbraio, all’indomani del crollo di una porzione del ghiacciaio himalayano del Nanda Devi, nello stato indiano dell’Uttarkhand, il direttore generale del Geological Survey of India (GSI), Ranjeet Rath. Nel mentre la notizia della distruttiva onda di acqua e detriti piombata sulla valle del fiume Dhauliganga, rimbalzava tra le testate internazionali e sui social, accompagnata da inevitabili riflessioni sui cambiamenti climatici.

Perché, se la connessione tra collasso di un ghiacciaio e cambiamenti climatici è così evidente, i geologi mettono le mani avanti, sottolineando la necessità di report approfonditi sul sito della catastrofe?

Prima di gridare al complotto, vediamo nel dettaglio quali siano gli elementi su cui stia indagando il GSI. Quali siano dunque le ipotesi alla base del crollo, avvenuto nel pieno dell’inverno.

Si è trattato di un GLOF?

“Non è chiaro se l’inondazione sia legata ad un tipico Glacial Lake Outburst Flood (GLOF) – afferma Rath – o alla formazione di un argine temporaneo dovuto alla discesa di una frana o di una valanga che ha causato la formazione temporanea di un lago glaciale successivamente collassato”.

Per avere chiara tale affermazione tocca fare un passo indietro e comprendere cosa sia un GLOF. In italiano potremmo tradurre tale espressione con “inondazioni da collasso di laghi glaciali”. I laghi glaciali, lo dice il nome stesso, sono bacini che nascono in sede glaciale, dotati di argini naturali rappresentati dalle morene, ovvero accumuli di sedimenti, frammenti rocciosi tenuti insieme dal ghiaccio, pertanto potenzialmente instabili. Se la morena cede, il lago collassa e esonda. Perché gli argini cedano basta un innalzamento termico. Ecco perché solitamente i GLOF si verificano nelle stagioni estive.

Citavamo nel nostro articolo in merito all’inondazione causata dal Nanda Devi, la catastrofe del giugno 2013, verificatasi sempre nell’Uttarkhand. In quel caso la stagione era “quella giusta”. Il collasso di domenica scorsa evidentemente stupisce anche gli esperti, in quanto si tratterebbe di un GLOF nella stagione invernale, durante la quale si presuppone che gli argini naturali si mantengano stabili.

L’ipotesi numero 2 del direttore del GSI è che non vi fosse alcun lago glaciale instabile, di suo dunque prono a esondazioni sul ghiacciaio del Nanda Devi.

“Una volta che il livello delle acque sarà sceso, gli esperti avranno modo di valutare il danno e quindi i fattori responsabili del cedimento”, chiarisce Rath.

“Non è stato un GLOF”

Se Rath si mantiene cauto, c’è chi esprime già con fermezza la propria opinione. Come il glaciologo dell’Indian Institute of Technology Farooq Azam che, in una intervista rilasciata a PTI, ha dichiarato: “Per certo non si è trattato di un GLOF, perché in questa stagione non c’è mai stato un lago glaciale su quel ghiacciaio. Anche se ci sono laghi, in questo periodo sono ghiacciati e totalmente inattivi. Il disastro si è verificato per la caduta di un seracco o di una frana”.

Azam ipotizza un evento improvviso alla base della catastrofe. Le immagini satellitari, al pari di Google Earth, sembrano confermare tale ipotesi. Ovvero l’assenza di laghi glaciali in zona. Tuttalpiù, evidenzia il glaciologo, si potrebbe ipotizzare la formazione di un piccolo bacino, non propriamente definibile lago quanto “tasca d’acqua”, che sarebbe andata incontro a collasso a seguito di un evento franoso improvviso.

Come si sarebbe formata la “tasca d’acqua”?

Il neo “lago glaciale”, causa potenziale della inondazione, potrebbe essersi formato di recente per una associazione di fattori: cambiamenti climatici da un lato, che come ben sappiamo agiscono su lunga scala temporale, e condizioni meteo poco invernali nella scorsa settimana. Due fattori legati tra loro.

“Non c’è dubbio che la regione mostri un progressivo riscaldamento indotto dal cambiamento climatico – chiarisce Azam – . Il cambiamento climatico determina dei pattern meteo alterati rispetto alla norma. Ad esempio un aumento delle precipitazioni nevose e piogge in un breve periodo, o inverni più miti. Questa combinazione di fattori potrebbe aver portato allo scioglimento anticipato di ingenti quantità di neve”.

Opinione su cui concorda Roxy Mathew Koll, climatologo dell’Indian Institute of Tropical Meteorology di Pune, aggiungendo che recenti studi effettuati in India mostrano un aumento significativo negli ultimi decenni dei processi di fusione a carico dei ghiacciai d’Himalaya. Un fenomeno legato all’incremento medio delle temperature.

Koll afferma che, alla base del collasso del Nanda Devi, potrebbero dunque esserci due concause: una pre-esistente condizione di fragilità del ghiacciaio determinata dal surriscaldamento globale e una perturbazione che la scorsa settimana ha portato abbondanti nevicate, seguite da cielo terso e alte temperature.

“Possiamo ritenere possibile che il cambiamento climatico e lo scioglimento della neve fresca abbiano insieme portato ad un accumulo di acqua nell’area”. 

Tra tante incertezze, ciò di cui gli scienziati si dicono sicuri è che il Governo dovrebbe iniziare a investire, con urgenza, risorse nel monitoraggio della regione himalayana, per poter seguire nel tempo i cambiamenti in atto sui ghiacciai e agire di conseguenza. Evitando improvvise catastrofi prevedibili, come forse avrebbe potuto essere prevista ed evitata anche quella di domenica.

Forse non serve cercare laghi o tasche

Mentre i giorni passano, gli scienziati analizzano nel dettaglio le immagini satellitari e, alle prime ipotesi sopra elencate, ne aggiungono una ulteriore che non chiama in causa laghi né pozze d’acqua generate dallo scioglimento anticipato delle nevi.

Le immagini satellitari Planet del 6 e 7 febbraio 2021 mostrano chiaramente un distacco di ghiaccio e roccia verificatosi sul versante Nord del Ronti Peak (6063 m). Tale massa sarebbe precipitata sul ghiacciaio sottostante, determinando il distacco di una valanga di ghiaccio e detriti, scivolata poi a valle nei letti dei fiumi Rishi Ganga e Dhauliganga, causando così l’onda di piena distruttiva.

Le immagini in diretta del disastro mostrano però un’onda vera e propria di fango scivolare lungo i pendii della montagna. Da dove è saltata fuori quell’acqua, escludendo in partenza laghi e pozze? Si tratta del punto su cui si sta lavorando attualmente. Non è da escludere che il semplice attrito in caduta abbia portato, con l’abbassamento della quota, allo scioglimento del ghiaccio contenuto nella massa franata.

L’Indian Institute of Remote Sensing parla anche di valanghe di ghiaccio, con rilascio di circa 1,6 milioni di metri cubi di acqua immagazzinata in laghi subglaciali del Raunthi Glacier.

La confusione è ancora tanta e forse è bene, come citato in apertura di articolo, attendere la fine dei report prima di scendere a conclusioni affrettate.

Le colpe dell’uomo

Al di là dei dettagli ancora da chiarire sulla dinamica dell’incidente dell’Uttarkhand, risulta chiaro che l’evento scatenante sia un fenomeno naturale. Legato ai cambiamenti climatici. Già quest’ultima affermazione di per sé chiama in causa gli esseri umani. Ma c’è un elemento che incrementa nel disastro le colpe dell’uomo: la presenza di dighe e relativi impianti idroelettrici, ancora tra l’altro in fase di costruzione lungo il percorso dell’onda di piena. In un ambiente fragile come l’ecosistema himalayano, è normale che venga concessa la costruzione di simili infrastrutture?

Non abbiamo imparato nulla dal disastro del 2013 nell’Uttarkhand – la risposta del Times of India – Non è la prima volta che l’area si trovi a fronteggiare simili disastri naturali né la prima volta che il Governo consenta la costruzione di dighe in ambienti così fragili”.

“Dal momento in cui i materiali del distacco avvenuto sul ghiacciaio hanno raggiunto la gola del Rishi Ganga, ci sono voluti sì e no 10 secondi all’onda di piena per travolgere la diga del Rishiganga hydropower project, facendola a pezzi”, aggiunge la redazione del TOI

Gli abitanti del villaggio di Raini, fortunatamente uno dei meno impattati dall’onda di domenica, si battono dagli anni Settanta per la difesa del loro territori. Nel 1973 le donne del paese manifestarono contro il taglio degli alberi, abbracciandoli. Due anni fa la popolazione ha fatto sentire la propria voce, chiedendo alla Uttarkhand High Court di bloccare i lavori di costruzione della diga. Fu avviata una ispezione ma, l’evento della scorsa settimana, chiarisce che ben poco sia poi stato fatto.

Nel report successivo al disastro del 2013, si evidenzia chiaramente in un passaggio come il Governo abbia modificato a piacere alcune leggi, per facilitare la costruzione di infrastrutture anche all’interno di riserve naturali, come lo è l’area del Nanda Devi. Vengono persino citati episodi di sanzioni a impianti improvvisamente ritirate per modifica dei confini della aree protette.

“Attività illegali nel nome dello sviluppo”, così le definiscono le NGO locali, come la Ganga Avahan, la cui esponente Mallika Bhanot ha dichiarato in merito al disastro di domenica 7 febbraio: “la causa di simili eventi nel pieno dell’inverno è inevitabilmente e totalmente umana”.

“Sarebbe opportuno mettere in campo un sistema di allarme coordinato dalle amministrazioni insieme agli scienziati. Sarebbe anche opportuno che i politici acquisissero maggiori competenze in campo scientifico e costruttivo”, dichiara il dottor Akhilesh Gupta, consulente presso il Department of Science & Technology.

C’è da dire che l’Uttarkhand sia ampiamente monitorato in termini di valutazione del rischio di esondazioni. Esiste anche un Uttarakhand Risk Database, contenente mappe di rischio e dati aggiornati, che è il tool più importante per la prevenzione di simili disastri. Come è possibile allora che nessuno abbia previsto un simile disastro? La sfortuna è che l’area del Nanda Devi Glacier non rientri nei siti di monitoraggio. Si considera una zona remota, insomma di importanza secondaria. Forse è il momento di comprendere che da piccole aree remote possano derivare parimenti tragedie.

La preoccupazione del Nepal

Le oltre 30 vittime e 150 dispersi (dati ancora in corso di modifica) del disastro del Nanda Devi hanno fatto scattare l’allarme in Nepal, dove si teme il verificarsi nel prossimo futuro di episodi similari, con frequenza crescente.

La dinamica descritta dalle immagini satellitari ricorda infatti al Nepal la tragedia del 2012 del fiume Seti, a nord di Pokhara, che uccise circa 80 persone. Anche in quel caso una ingente frana si staccò dall’Annapurna IV, piombando sul ghiacciaio sottostante e determinando una esondazione. In entrambi i casi non ci è trovati di fronte ad un GLOF ma un distacco roccioso, piombato su un ghiacciaio.

Ciò che risulta chiaro è che i Paesi attraversati dalla catena dell’Himalaya, debbano tutti prepararsi a fronteggiare disastri di tal portata. Il fattore di rischio di tali nuove tipologie di esondazione va tenuto in considerazione in sede di pianificazione di nuove infrastrutture o nella realizzazione di nuove abitazioni. 

Niente panico ma prudenza!

L’Himalaya, si legge sul Nepali Times, è sempre con maggior frequenza soggetta a frane nella stagione monsonica. Le montagne sono relativamente giovani e sismicamente attive, e i loro versanti instabili. Le piogge monsoniche facilitano i distacchi. L’affermazione che simili catastrofi possano aumentare in frequenza, chiarisce la redazione, non deve scatenare il panico. Ma portare il Paese a riflettere anche sugli scenari peggiori, quale un enorme terremoto che potrebbe causare in contemporanea il collasso di molteplici laghi glaciali con inondazioni sparse.

Ciò che attualmente è noto è che i laghi glaciali himalayani stiano aumentando in numero e dimensioni. In Nepal se ne contano 47 a rischio collasso su un totale mappato dall‘International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD) pari a 3.624. Di questi 42 si localizzano nella zona del fiume Kosi, 3 sul Gandaki e 2 sul Karnali.

Dal momento che i fiumi più a rischio di collassi glaciali e conseguenti esondazioni attraversano confini nazionali, sarebbe bene, conclude il Nepali Times, che gli Stati himalayani iniziassero a cooperare tra di loro.

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2 Commenti

  1. CIAO.ottima esposizione.volevo aggiungere una informazione ai piu’.cercate la parola ATTABAD.strano che non venga menzionato in questo articolo.ma il fenomeno probabilmente e identico.solo che si trova in pakistan/gilgit.una COLLOSSALE parte di montagna ha formato dopo la frana un lago lungo 21 km.profondo 100/150 metri.cercatelo.non e tempo perso.bye

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