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Dal monastero di Tengboche a Pangboche, dove l’aria inizia a farsi sottile – La strada per l’Everest

Ai piedi delle grandi vette del Khumbu sorge una straordinaria cittadella della fede. Il monastero di Tengboche (ma sui vecchi libri si trova spesso Thyangboche) occupa un pianoro erboso a 3867 metri di quota, affiancato da una fitta foresta che scende verso le acque tumultuose dell’Imja Khola. I primi alpinisti europei a visitarlo, nel novembre del 1950, sono l’inglese Bill Tilman e l’americano Charles Houston, due protagonisti dell’esplorazione himalayana che compiono il primo trekking verso il ghiacciaio del Khumbu. La descrizione che diventa famosa, “uno dei luoghi più belli del mondo”, si deve a un altro inglese, John Hunt, che passa da qui tre anni dopo, alla testa della spedizione che sale per la prima volta l’Everest. 

Dal prato di Tengboche, la cima più alta della Terra si vede appena, nascosta dalla cresta dentellata e dalla impressionante muraglia del Nuptse, 7861 metri. Alla sua destra, ancora più ripida, è la parete Sud del Lhotse. A sorvegliare il monastero, però, è la piramide dell’Ama Dablam, che nonostante i “soli” 6812 metri di quota è tra le vette più belle e famose del mondo. 

Il monastero di Tengboche

Come molti monasteri dell’Appennino e delle Alpi, dalla Grande Chartreuse e dalla Novalesa fino Camaldoli e a Montecassino, Tengboche sembra un edificio senza tempo. Invece è stato costruito relativamente da poco. Il Lama Gulu, proveniente dal monastero di Rongbuk ai piedi del versante tibetano dell’Everest, ha dato il via ai lavori per la sua costruzione nel 1916. Nel 1934 il complesso è stato distrutto da un terremoto, e ricostruito. La seconda distruzione, nel 1989, è stata causata da un incendio. A rendere possibile la ricostruzione è stato il lavoro di volontari arrivati tutto il mondo, e dai fondi raccolti dall’American Himalayan Heritage Foundation e dall’Himalayan Trust. E’ stato l’ultimo regalo di Sir Edmund Hillary agli Sherpa. 

Oggi a Tengboche vivono qualche decina di monaci, affiancati da alcuni novizi. La grande sala di preghiera è chiusa da un’enorme statua dorata del Buddha Sakyamuni, affiancata di quelle di Manjushri, la dea della saggezza, e Maitreya. In autunno si celebra il festival del Mani Rimdu, quest’anno le giornate più importanti saranno l’8, il 9 e il 10 novembre. Ogni pomeriggio, tutto l’anno, i monaci si riuniscono nella grande sala per recitare le loro preghiere, accompagnate dal suono di timpani, tamburi, campanelli e trombe. E’ un momento di grande suggestione anche per chi arriva da lontano. E’ vietato fotografare e filmare, e per chi è qui per lavoro è un brutto colpo. Ma devo ammettere che è giusto così. Nell’alta stagione del trekking, con decine di viaggiatori nella sala, il permesso di usare telecamere, macchine fotografiche e cellulari trasformerebbe il paradiso in un inferno. 

Il popolo dei camminatori è cambiato negli anni

Chi, in una giornata serena, percorre la tappa da Namche Bazar a Tengboche compie un passaggio inverso. La salita iniziale, cento metri di dislivello tutti a gradini, mette a dura prova i polmoni. Poi il sentiero diventa pianeggiante, corre alto sopra al fiume, raggiunge un chorten da cui appaiono Everest, Nuptse, Lhotse e Ama Dablam. A incombere sul sentiero è il Thamserku, un altro gigante sconosciuto ai più, che raggiunge i 6608 metri. Ormai il popolo dei camminatori ha preso il ritmo e i gruppi, piccoli o grandi che siano, si sorpassano di rado. Rispetto a qualche anno fa, le comitive assemblate da agenzie nepalesi, con clienti di paesi diversi, sono più numerose di quelle di nazionalità unica. 

Gli Sherpa e i portatori

Quindici anni fa, quando sono passato per l’ultima volta da qui, bastava uno sguardo per capire da dove venisse ognuno. Italiani, britannici, francesi e tedeschi avevano abbigliamento e zaini dei rispettivi paesi, e quelli dell’Europa orientale si riconoscevano per un vestiario e un’attrezzatura modesti. Ora tutti indossano le medesime marche, e riconoscere le varie nazionalità è difficile. Tra le guide, in grande maggioranza Sherpa, prevale il look-Nirmal Purja, con berretto da baseball sormontato da occhiali da sole, piumino aderente e scarpe da trekking basse. Restano diversi, e assai peggio attrezzati, i portatori. Tra loro sono un po’ di Sherpa del Solu, la regione vicina e meno turistica del Khumbu, dei ragazzi di etnia Rai, e uomini più anziani che arrivano dalla pianura, e si riconoscono per il “topi”, il cappello colorato che è tra i simboli del Nepal. Tutti portano fino a 30 chili sulla schiena, guadagnano 1800 rupie (circa 15 euro) al giorno, hanno ai piedi scarpe da ginnastica “made in India” o addirittura sandali da doccia o infradito. Camminano allegri, salutano i trekker, ascoltano musica da radioline o cellulari, da queste parti il loro è un discreto stipendio. Non c’è dubbio, però, che i portatori siano i veri eroi dell’Everest.   

Il monastero di Pangboche e i resti dello yeti 

Dopo la traversata a mezza costa, e il chorten da cui compaiono le vette, il sentiero scende ripido a traversare il ponte di Phunki, poi risale a svolte in un bellissimo bosco, fino a scoprire il prato e il monastero di Tengboche. L’indomani si riparte in discesa, tra rododendri arborei che in primavera si colorano di fiori. Dopo un altro ponte si riprende a salire verso i lodge di Pangboche, sorvegliati dall’alto da un monastero che una volta, secondo i religiosi, ospitava una mano e lo scalpo di uno yeti. Negli anni Cinquanta, insieme agli alpinisti e ai primi trekker, sono arrivati i ricercatori. Il primatologo William Hill stabilì che si trattava di resti umani, poi ci ripensò e scrisse di una “somiglianza con resti di uomo di Neanderthal”. Poco dopo i due cimeli sono stati rubati, nel 2011 sono stati regalati al monastero due repliche prodotte dalla Weta Workshops, una ditta neozelandese che realizza costumi e scenografie per le grandi produzioni di Hollywood, a iniziare dal Signore degli anelli. Pochi trekker, però, affrontano i venti minuti in più di salita per vederli.

L’aria inizia a farsi sottile

Se nella tappa che porta a Tengboche i camminatori sono allegri, nella successiva l’umore di molti di loro cambia. Poco oltre Pangboche si superano i fatidici 4000 metri di quota, poi si raggiungono gli stazzi di Tshuro, dove si stacca a destra il sentiero per Dingboche, l’Island Peak e la base della parete meridionale del Lhotse. Si continua sul sentiero di sinistra, si scavalca una sella, si scende a mezzacosta fino a un ponte sulla Khumbu Khola, il fiume che scende dall’Everest. Infine si risale a Pheriche, 4250 metri, dove tra i pascoli utilizzati dagli yak sono sorte decine di lodge e negozietti. Ogni pomeriggio, quando i trekker hanno completato la loro fatica, medici e infermieri della Himalayan Rescue Association tengono un incontro sul mal di montagna.  

Chi prosegue verso Lobuche, il campo-base dell’Everest e il belvedere del Kala Pattar deve fare attenzione, e accettare di rinunciare e scendere se la mancanza di equilibrio o un mal di testa persistente indicano che non si sta bene. Ogni giorno, qualche elicottero riporta verso Lukla e Kathmandu chi non riesce a scendere con le sue forze. Di fronte all’ambulatorio, un cuneo di metallo scintillante, diviso in due parti, ricorda le centinaia di alpinisti che hanno perso la vita sull’Everest. I primi nomi sono quelli di Norbu, Lhakpa, Pasang, Pema, Sange, Dorje e Temba, i sette Sherpa uccisa da una valanga il 7 giugno del 1922, sui ripidi pendii del Colle Nord. L’ultimo è dell’americano Cristopher Kulish, morto il 27 maggio 2019. Purtroppo è un elenco che dev’essere aggiornato.        

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