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In cammino verso Namche Bazar, la capitale Sherpa – La strada per l’Everest

Le montagne divennero più ripide, i fiumi più impetuosi, la gente sorrideva, eravamo nella terra degli Sherpa”. Con queste parole, scritte nella primavera del 1953, il colonnello inglese John Hunt, capo della spedizione che da lì a poco avrebbe conquistato l’Everest, esprimeva prima di tutto un sollievo. Dopo settimane di marcia faticosa, dalla torrida pianura al confine con l’India alla capitale nepalese Kathmandu, e poi attraverso gli infiniti contrafforti meridionali dell’Himalaya, gli alpinisti e i loro portatori erano finalmente arrivati in montagna. Le acque impetuose della Dudh Kosi, le foreste di conifere che la circondano, le solide case in pietra degli Sherpa erano il segnale dell’ingresso in un mondo diverso. Qualche giorno di cammino più avanti, oltre gli alberi e le rocce di bassa quota, sarebbero iniziate ad apparire le cime. Il Kusum Kangguru, il Thamserku, l’Ama Dablam, infine l’Everest e i suoi imponenti vicini, dal Pumori fino al Lhotse e al Nuptse.   

Forse non è un pensiero corretto, perché ognuno sceglie le sue mete come vuole. Ma dopo qualche ora di cammino da Lukla, giù verso Chaurikarka e il fondovalle della Dudh Kosi, e poi attraverso i villaggi che hanno emozionato John Hunt (tra loro Phakding, Tok Tok, Ghat con un magnifico monastero circondato da grandi massi) mi chiedo cosa sappiano davvero dell’Everest i camminatori che affollano insieme a me il sentiero. 

I camminatori sulla via per l’Everest

Prima del monsone, tra marzo e aprile, qui passano centinaia di alpinisti, e l’atmosfera è certamente diversa. Ottobre è l’altissima stagione del trekking, e qui arrivano migliaia di persone che del “Big E” sanno ben poco. Qualche chiacchierata durante una cena o una sosta per un tè in un lodge (i piccoli alberghi accanto al sentiero) permette di scoprire che tutti conoscono Nirmal Purja ma nessuno ricorda George Leigh Mallory. E che molti ignorano che la storia dell’Everest è iniziata nelle aride steppe del Tibet. 

Sanno molto della cima più alta della Terra, immagino, i camminatori dell’Europa orientale (identifico slovacchi, polacchi e sloveni) che marciano in gruppo e di buon passo, e che sul plastico all’ingresso del Parco nazionale Sagarmatha indicano con competenza l’Island Peak, l’Ama Dablam e le altre cime. La guerra ha fatto sparire russi e ucraini, la chiusura delle frontiere i cinesi. Sono meno numerosi che in passato francesi, britannici e tedeschi, mentre sono aumentati gli spagnoli. Resistono statunitensi, neozelandesi e australiani, con in tasca delle valute forti e sempre pronti a un viaggio avventuroso. Sembrano pochi anche i camminatori italiani, e mi chiedo se è colpa della crisi economica, o se significa che una parte dei trekker europei più scafati preferisce itinerari meno affollati e scontati, come quelli inaugurati da qualche anno nel “selvaggio Ovest” del Nepal.  

Sono molti invece, e questa è una gran bella notizia, i camminatori che arrivano da Kathmandu e da altre parti del Nepal. Sono giovani, sono concentrati e convinti, molti gruppi sono formati solamente da ragazze. Abbondano anche gli indiani, che però danno un’immagine contraddittoria di sé. I più anziani sembrano andare avanti senza problemi. I più giovani, spesso palestrati e con un abbigliamento militare, vanno invece in crisi di brutto, accuditi da guide con la faccia rassegnata. 

I trekker di oggi, ovviamente, non provano il sollievo di John Hunt e compagni nel ritrovarsi tra boschi e fiumi impetuosi. Il motivo è che non arrivano a piedi dalla pianura, ma s’incamminano dalla pista di atterraggio di Lukla. Il trek integrale, che oggi inizia da Jiri dove finisce la strada, aggiunge cinque o sei tappe al percorso, e consente di arrivare a 5000 metri di quota con una forma e un’acclimatazione perfetta. A sceglierlo però è una minuscola minoranza di trekker, dai gusti avventurosi e che dispongono di interminabili ferie.

Il lascito di Edmund Hillary nella valle dell’Everest

E’ anche colpa del tempo che passa impietoso se ben pochi dei camminatori di oggi non sanno che Edmund Hillary non è solo stato il primo uomo insieme a Tenzing a toccare gli 8848 metri della cima. Negli anni successivi alla vittoria, per ripagare il debito che sentiva di avere con gli Sherpa, Sir Edmund ha fondato l’Himalayan Trust, ha raccolto fondi in tutto il mondo, e ha trasformato questa terra difficile. Grazie al suo lavoro e ai soldi raccolti da lui sono nati i primi ospedali, le prime scuole moderne, l’aeroporto di Lukla. La novità più importante sono stati i lunghi ponti sospesi in acciaio, che consentono ai trekker, e soprattutto alla gente del posto, di attraversare la Dudh Kosi e i suoi tumultuosi affluenti senza rischiare ogni volta la pelle su traballanti passerelle in legno e tronchi. E’ un regalo di Hillary al Nepal anche il Parco nazionale Sagarmatha, nato quando l’alpinista era diventato ambasciatore della Nuova Zelanda a Kathmandu e a New Delhi. Oltre le case di Monjo, la babele degli escursionisti si ritrova all’ingresso dell’area protetta, dove occorre pagare un permesso e farlo vistare dai ranger. 

Tra le regole da rispettare, riportate su una vistosa tabella, c’è quella di non far volare droni. Probabilmente è giusto, altrimenti alla folla sui sentieri si affiancherebbe un ingorgo in aria. Il divieto fa sorridere, però, se si pensa che sopra alla Dudh Kosi, ogni giorno, passano decine e decine di elicotteri diretti verso Namche o l’alta valle. “Sono i taxi del Khumbu” sorride Dawa, la mia guida. In primavera, con le spedizioni all’Everest, i voli sono molto più numerosi. Cosa ne pensano le aquile, i gipeti e gli altri uccelli che vivono da queste parti? E’ una domanda da fare al direttore del Parco nazionale Sagarmatha, se riuscirò a incontrarlo e a intervistarlo al ritorno.

L’ultimo ponte, che si supera dopo i lodge di Jorsale e una micidiale scalinata, è il più fotogenico e il più impressionante di tutti, e “sorvola” il fiume da oltre 80 metri di altezza. Prima di imboccarlo, è bene assicurarsi che dall’altra parte non stia arrivando una carovana di muli, dzo o zopkio (i due ibridi dello yak, più docili dell’originale) che costringerebbe a un precipitoso dietrofront. Poi, e non è poco, restano i cinquecento metri di ripide o ripidissime svolte che conducono verso la “piccola capitale” degli Sherpa. Più in basso il sentiero è costruito in maniera perfetta, qui invece è in condizioni pessime, con pietre in bilico e tratti di fango scivoloso. Poi un ultimo posto di blocco, stavolta della polizia nepalese, precede le case e i lodge del paese. 

L’arrivo a Namche Bazar

In una conca a circa 3400 metri di quota (il dislivello tra la base e le costruzioni più alte è enorme) si stipano un centinaio di lodge e ristoranti, pasticcerie chissà perché indicate come “German bakery”, pub e locali che propongono musica dal vivo, un piccolo monastero buddhista, negozi di materiale da alpinismo e da trekking dove si trova di tutto, dai dubbi piumini di produzione locale ai sacchi a pelo e ai ramponi più performanti. 

Dalla babele di Namche, un’altra micidiale scalinata sale al dosso boscoso che ospita la direzione del Parco, e che è celebre per il suo panorama. Quando ci arrivo manca un’ora e mezza al tramonto, e le nuvole sono compatte. Poi una raffica di vento le sposta. L’Everest non si lascia vedere, ma il Lhotse e il Lhotse Shar offrono un quadro perfetto. La magia del Khumbu c’è ancora.  

Per leggere le altre puntate del viaggio:

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