Storia dell'alpinismo

Everest, l’invernale dei polacchi che ha cambiato l’alpinismo

L’alpinismo himalayano cambia il 17 febbraio del 1980. Quel giorno, alle 14.25, due alpinisti raggiungono per la prima volta d’inverno gli 8848 metri dell’Everest. Sono i polacchi Krzysztof Wielicki e Leszek Cichy. Il racconto della loro salita ha toni tranquilli, ma fa capire che i due corrono rischi tremendi. 

Il racconto della salita

I due lasciano il Colle Sud alle 6.30, salgono alternandosi in testa per battere la pista sulla neve. Usano i respiratori a ossigeno, ma non è chiaro se questi siano davvero un aiuto. E’ difficile dire se quei due aggeggi ci aiutarono davvero, o se furono d’intralcio, con quei nove chili di peso aggiuntivo a testa” rifletterà Krzysztof Wielicki in La mia scelta, la sua autobiografia pubblicata nel 2019. “Non sentii chissà quale beneficio da quell’ossigeno, mentre sentii perfettamente il progressivo congelamento del volto causato dalla maschera” prosegue Wielicki. Queste parole, però, verranno scritte nel 2015, quando tutti gli alpinisti himalayani di punta avranno rinunciato alle bombole.  

Krzysztof e Leszek sono forti e abituati a soffrire. A spingerli, oltre alla tecnica e alla voglia di entrare nella storia, sono gli incoraggiamenti di milioni di polacchi e le preghiere di Papa Giovanni Paolo II, che da giovane sacerdote ha praticato l’escursionismo e l’alpinismo sui Tatra.

Il 17 febbraio il vento è forte, ma non impedisce di salire. La cresta oltre la Cima Sud è orlata da cornici gigantesche, e i due devono passare qualche metro più in basso, impiegando molto tempo. In compenso l’Hillary Step è coperto di neve, e non offre difficoltà di rilievo. Alle 14.25, mentre il capospedizione Andrzej Zawada e gli altri alpinisti sono riuniti al campo base, la voce di Leszek Cichy annuncia per radio che la cordata ha raggiunto la cima.  Accanto al treppiede della spedizione cinese del 1975, e alle bandierine di preghiera buddhiste, Krzysztof e Leszek lasciano un termometro, un rosario donato da Papa Woytjla e una cartolina della loro spedizione.

Oggi una bandiera della Polonia è stata piantata sulla vetta più alta del mondo. La spedizione polacca ha stabilito un incredibile primato nell’alpinismo invernale” scrive con orgoglio Andrzej Zawada in un comunicato che fa il giro del mondo in poche ore.

Il capospedizione Andrzej Zawada

Buona parte del merito di quella vittoria va proprio a Zawada, geologo e sismologo dell’Accademia delle scienze polacca. Nato nel 1928, ha attraversato da ragazzo e adolescente gli anni terribili della guerra, dell’invasione nazista e poi dell’arrivo dell’Armata Rossa. Come alpinista, negli anni Cinquanta, si è fatto notare come specialista dell’inverno. Nel 1959 è stato uno dei protagonisti della prima traversata invernale dei Tatra, che ha richiesto ben 19 giorni. Nel 1971 ha diretto la spedizione polacca al Khunyang Chhish, 7852 metri, in Karakorum. Un anno e mezzo dopo, con Tadeusz Piotrowski, ha compiuto la prima salita invernale del Noshaq, 7492 metri, nell’Hindu Kush. Nel 1974, una spedizione diretta da Zawada tenta d’inverno il Lhotse, ma viene respinta dal maltempo a 8250 metri di quota.

Tre anni dopo, l’alpinista polacco chiede il permesso per una spedizione invernale all’Everest.L’autorizzazione arriva il 22 novembre 1979, a un mese dall’inizio dell’inverno. La spedizione potrà operare fino a metà febbraio. Se si bada alla difficoltà dell’impresa, e ai tempi necessari per organizzarla, sembra una sfida impossibile. 

Ma Zawada compie il miracolo. Si procura corde, fornelli, moschettoni, bombole di ossigeno e tende. Fa produrre a tempo di record degli scarponi doppi e adatti agli ottomila metri d’inverno. Ottiene dal Club Alpino Polacco i fondi per i biglietti da Varsavia a Kathmandu, e per spedire in Nepal il bagaglio. Il 5 gennaio 1980, il team finisce di sistemare il campo-base, e inizia ad attrezzare la seraccata. In dieci giorni, nonostante il freddo intenso, la spedizione sale fino a 7500 metri sulla parete del Lhotse, sistemando tre campi avanzati.    

La squadra

Tutti gli alpinisti (oltre ai tre già citati Kryzstof Cielecki, Ryszard Dmoch, Walenty Fiut, Ryszard Gajewski, Andrzej Heinrich, Jan Holnicki-Szulc, il dottor Robert Januk, Janusz Macka, Kazimierz Olech, Maciej Pawlijowski, Rysziek Szafiurski e Krysztof Zurek) meritano una menzione e un applauso.  

Ha un ruolo speciale Bogdan Jankowski, alpinista e mago dell’elettronica, che costruisce al campo-base due antenne di una ventina di metri, che permettono all’annuncio della vittoria di arrivare a Varsavia in tempo reale. E’ un dettaglio che all’epoca fa scalpore.

L’impresa

L’11 febbraio Wielicki, Cichy e Walenty Fiut arrivano al Colle Sud per tentare la cima l’indomani. Hanno una grande tenda americana, ma non riescono a installarla. Dopo ore di lotta Cichy rinuncia e scende al campo III. Gli altri passano una notte terribile nella tenda sballottata dal vento, reggendo a mano dall’interno i pali. L’indomani anche loro scendono, e Wielicki ha alcune dita dei piedi congelate. 

Poi Zawada deve affrontare un problema diverso. Il governo del Nepal, nel permesso, ha imposto ai polacchi di lasciare la montagna il 15 febbraio. Quando la proroga arriva è di sole quarantott’ore. Ma quei due giorni in più bastano per l’impresa. 

Il 15 febbraio Wielicki e Cichy tornano al Colle Sud. Stavolta la notte è sopportabile. E quando i due partono per la cima, come racconta Krzysztof in La mia scelta, sembrano “cavalli con il paraocchi”, che “vedono soltanto la vetta”. L’ufficiale di collegamento nepalese è al campo-base, e non può fermarli. “Se avessimo raggiunto la vetta oltre la data fissata” prosegue Wielicki nel libro, “un funzionario ci avrebbe potuto punire, ma non avrebbe potuto annullare l’impresa”. 

Nel primo pomeriggio del 17, i due alpinisti si abbracciano sulla cima. Come spesso sull’Everest, però, il momento più pericoloso è la discesa. Scavalcata la Cima Sud, Cichy scende per primo e sparisce. Wielicki ha dolore alle gambe, scende faccia al pendio e resta indietro, sul pianoro del Colle Sud fatica a trovare il campo, e rischia di perdersi e morire. Quando si trascina nella tenda cerca di salvare le dita dei piedi tenendole sul fornello acceso, con il terrore di causare un incendio. Quando i piedi iniziano a gonfiarsi, Krzysztof Wielicki capisce che sono ancora vivi, e si concede un po’ di sonno. 

Le invernali successive

Negli anni che seguono, con le prime invernali di altri sette “ottomila” (tra questi il Dhaulagiri, l’Annapurna e il Kangchenjunga), tutti si accorgeranno della classe e della tenacia di quel gruppo di alpinisti polacchi. Le sfide recenti di Denis Urubko, Alex Txikon, Simone Moro, Tamara Lunger e dai loro compagni di avventura sono figlie di quell’impresa di quarant’anni fa. 

Lo stesso, purtroppo, vale per le tragedie. Nel gennaio del 1986, mentre Jerzy Kukuczka e Krzysztof Wielicki arrivano sulla vetta del Kangch, il loro compagno di spedizione Andrzej Czok muore di mal di montagna più in basso. La fine sul Nanga Parbat di Tomasz Mackiewicz nel 2018, e quella di Daniele Nardi e Tom Ballard nel 2019, ricordano che l’inverno a ottomila metri non perdona. 

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Un commento

  1. Sembra banale ricordarlo, ma è giusto sottolineare che quella della prima all’Everest fu davvero un’impresa ai limiti del possibile. Non c’erano le attrezzature che ci sono oggi, non c’è la tecnologia (previsioni meteo, mappature fotogrammetriche con droni, ARVA, GPS, etc..) che c’è oggi, non c’era soprattutto l’esperienza in tema di ascensioni invernali che c’è oggi, eppure i polacchi riuscirono ad aver ragione del gigante himalayano aprendo una nuova era nella storia dell’alpinismo che ancora oggi perdura mantenendo inalterato tutto il suo fascino di sfida estrema alla natura. Ma la cosa più sensazionale furono i tempi della spedizione, ben illustrati nell’articolo, ristretti in maniera ridicola persino per la più attrezzata delle spedizioni moderne. Di sicuro, se l’alpinismo non fosse stato più che lo sport nazionale direi il mezzo trainante dell’orgoglio di un intero popolo (alla stregua, ma in misura se possibile ancora maggiore, di quanto non lo fu per noi nella prima al K2 nel 1954), tutto ciò non sarebbe stato, credo, possibile. Tanti auguri e tanti complimenti ai protagonisti che festeggiano questo importante anniversario!

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