AlpinismoStoria dell'alpinismo

3 luglio 1953: 70 anni fa Hermann Buhl conquistava da solo il Nanga Parbat

La straordinaria impresa alpinistica di Hermann Buhl sul Nanga Parbat, la terza montagna sopra gli 8000 metri a essere scalata dall'uomo

Il 1953, nella storia dell’alpinismo himalayano, non è solo l’anno dell’Everest. Il 3 luglio, poco più di un mese dopo il trionfo di Hillary e Tenzing, un alpinista tirolese raggiunge gli 8126 metri del Nanga Parbat, la nona vetta della Terra. Hermann Buhl, 29 anni, celebre per le sue imprese sulle Alpi, lascia prima dell’alba il campo V, a 6900 metri di quota, poi percorre un’interminabile cresta di neve.

Va leggero, appoggiandosi ai bastoncini da sci, con i ramponi ai piedi e un piccolo zaino sulle spalle. Otto Kempter lo segue per qualche ora e poi rinuncia. Dalla Silbersattel, la “Sella d’Argento”, occorre traversare un interminabile pianoro, poi scavalcare un’anticima dove si sono fermati nel 1934 Peter Aschenbrenner ed Erwin Schneider.

Il Nanga Parbat, che si affaccia sulla valle dell’Indo e il Karakorum, segna per i geografi il limite occidentale dell’Himalaya, ma dista più di mille chilometri dalla parte orientale della catena, la più esposta al monsone, e può essere salito in estate.  Il tempo è magnifico, e dalla cresta Buhl scopre la valle dell’Indo e le vette del Karakorum e dell’Hindu Kush.

L’alpinista lascia il suo zaino tra le rocce, e prosegue scarico. Scende su roccia alla Forcella Bazhin, poi risale con fatica verso la Spalla. Percorre una stretta cresta di neve affacciandosi sull’abisso della parete Rupal, che verrà salita nel 1970 dai fratelli Reinhold e Günther Messner. Un torrione lo costringe a scendere verso destra, superando difficili passaggi su misto.

Per superare la fatica, Hermann inghiotte due compresse di Pervitin, uno stimolante, e beve del tè alla coca, portata da Hans Ertl che vive da anni in Bolivia. Alla fine il terreno è più facile, ma Buhl si sente “un rottame umano”. Alle 19, dopo aver superato in un giorno più mille metri di dislivello – un’enormità a quelle quote! – è in cima.

La discesa è più dura della salita. Per evitare i passaggi difficili, Buhl si abbassa sul versante di Diamir e prosegue a saliscendi. Una cinghia che si spezza lo lascia senza un rampone, quando il buio diventa completo bivacca in piedi, a 8000 metri di quota, su un terrazzino largo quanto le suole degli scarponi.

L’indomani il calvario prosegue. Hermann perde i guanti, ma ne ha un paio di ricambio. Traversa un canale, risale, sbuca su un pendio di neve e torna sull’itinerario di salita. La traversata della Silbersattel è facile, ma la stanchezza è tremenda. Recupera lo zaino, divora il poco cibo che contiene, prosegue. All’imbrunire, 41 ore dopo la partenza, si accascia nella tenda del campo V, dove Ertl e Walter Frauenberger si prendono cura di lui.

La lunga via verso il Nanga Parbat

Il Nanga Parbat, che dal 1947 si alza in territorio pakistano, è uno degli “ottomila” più vicini alla pianura del Punjab, e viene tentato prima di altre grandi montagne. Nel 1895 il britannico Albert F. Mummery affronta il versante di Diamir, e scompare insieme a due nepalesi. Tra il 1932 e il 1939, cinque spedizioni di alpinisti austriaci e tedeschi tentano dal versante di Rakhiot, e nel 1934 sfiorano gli 8000 metri di quota.

Le valanghe, però, uccidono quattro europei e sei sherpa nel 1934, e sette alpinisti e nove sherpa nel 1937. La spedizione del 1939 viene interrotta dalla Seconda Guerra Mondiale, e i componenti sono imprigionati dai britannici. Due di loro, Heinrich Harrer e Peter Aufschneiter, fuggono verso il Tibet e Lhasa, dove vengono accolti dal Dalai Lama. È la celebre storia di Sette anni in Tibet.

Dopo il ritorno della pace, le economie della Germania e dell’Austria sono allo stremo. Servono anni prima che, tra Monaco e Innsbruck, si trovino i fondi per una nuova spedizione. La dirige il medico bavarese Karl M. Herrligkoffer, responsabile della parte alpinistica è Peter Aschenbrenner. Completano il team Kuno Rainer, Hans Ertl (che cura il film), Fritz Aumann, Albert Bitterling, Hans Hartmann, Hermann Köllensperger, Walter Frauenberger e Otto Kempter.

L’asso della squadra è Hermann Buhl, che prima della guerra ha salito le vie più difficili del Wilder Kaiser e del Karwendel. E che, dopo due anni in un campo di concentramento alleato, è tornato sulle grandi classiche delle Dolomiti e delle Alpi occidentali e centrali. La parete Nord dell’Eiger in una bufera di neve, la prima solitaria della via Cassin al Piz Badile, la prima invernale della Micheluzzi alla Marmolada lo hanno reso famoso. Prima di partire per il Pakistan, Buhl sale da solo e d’inverno la gigantesca Est del Watzmann, nelle Alpi bavaresi.

A maggio la spedizione affronta il versante Rakhiot del Nanga Parbat. Il monsone che si avvicina porta tempeste di vento e nevicate. La neve fresca, insieme ai seracchi in bilico, causa gigantesche valanghe. “Tutte le mie passate disavventure con le valanghe non erano nulla al confronto delle valanghe del Nanga Parbat”, annota Buhl nel libro Achtausander drüben und drunter (È buio sul ghiacciaio, nell’edizione italiana).   

Raggiunto il campo III, 6130 metri, il ghiacciaio e le valanghe sono alle spalle. Resta da superare l’interminabile cresta che forma via via il Rakhiot Peak (7070 metri), i due Silberzacken (Denti d’Argento, 7595 metri), una prima cima secondaria (7910 metri) e infine la Spalla (8070 metri). Il tempo alterna rare giornate di bel tempo a bufere, i portatori d’alta quota danno uno scarso contributo, Herrligkoffer pensa di rinunciare.

L’impresa in solitaria

Il 16 giugno, dopo cinque giorni di maltempo, Ertl, Aschenbrenner, Kempter, Köllensperger e Rainer, con i portatori Ali Madad, Hadj Beg and Hidaya Khan, raggiungono Buhl al campo III. Oltre ai carichi, portano una grande notizia, l’Everest è stato salito. Due giorni dopo, quando il tempo torna bello, quattro alpinisti proseguono in una neve “senza fondo”, e piazzano il campo IV a 6700 metri di quota. L’indomani, aggirato il torrione della Testa di Moro, Buhl sale l’aguzzo Rakhiot Peak.

Seguono altri giorni di brutto tempo, poi, dal basso, arriva l’ordine di evacuare la montagna. Dal campo III, via radio, Ertl, Buhl, Köllensperger e Kempter rispondono che non se ne parla neppure. Il 3 luglio, grazie a Hermann, il Nanga Parbat è il terzo “ottomila” a venire raggiunto dall’uomo dopo l’Annapurna e l’Everest.

In discesa, il dolore ai piedi congelati impedisce a Buhl di camminare. Per trasportarlo, sul ghiacciaio e sul sentiero, collaborano europei e pakistani. Alla fine l’alpinista perde solo due dita, un prezzo molto minore di quello pagato da Herzog e Lachenal sull’Annapurna.

Hermann muore quattro anni dopo in Karakorum, dopo aver compiuto la prima salita del Broad Peak, 8047 metri. Scendendo nella nebbia da un tentativo al Chogolisa, un “settemila” già affrontato dal Duca degli Abruzzi, non vede una cornice di neve e precipita sul versante cinese della montagna. La sua impresa solitaria sul Nanga Parbat resta uno degli exploit più straordinari della storia.

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