Storia dell'alpinismo

Makalu: storia delle invernali

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Quella delle invernali sul Makalu è una storia di bufere impenetrabili e tentativi respinti dal vento. Portati avanti da alpinisti come Renato Casarotto, Reinhold Messner, Hans Kammerlander, Krzysztof Wielicki, Jean Christophe Lafaille e Nives Meroi. Nomi illustri dell’alpinismo, che hanno dovuto arrendersi – chi più in alto, chi più in basso – attorno allo scoglio del Makalu La: il passo dove la via normale scollina verso il Tibet ed espone alle gelide e violente correnti d’alta quota.

Il Makalu (8463 metri), fino a ieri era l’unica delle sette cime himalayane a non essere mai stata salita d’inverno. L’impresa, compiuta splendidamente nelle scorse ore dalla cordata italo-kazaka di Simone Moro e Denis Urubko, rappresentava per davvero “l’ultima grande sfida prima del chiudersi di un’era”.

Il primo tentativo di scalata invernale al Makalu risale al 1980. A provarci furono due italiani, Renato Casarotto e Mario Curnis, che riuscirono ad arrivare a 7.400 metri di quota. L’anno dopo fu la volta di un gruppo di inglesi capitanati da Ron Rutland, che abbandonarono la salita a 7.300 metri, dove si sono sentirono male ben quattro alpinisti della spedizione. Lo stesso inverno fece un tentativo in solitaria anche il francese Ivan Ghirardini, che all’inizio volle tentare la parete ovest, poi ripiegò sulla via normale e alla fine rientrò dopo aver raggiunto al massimo i 7000 metri.

Nel 1985 ci provarono Rehinold Messner e Hans Kammerlander: curioso notare che anche il loro tentativo di vetta, come quello di Moro e Urubko, avvenne proprio il 9 febbraio. I due altoatesini, quella volta, salirono con due sherpa e un cameraman. Dovettero però rinunciare a causa dell’imminente cattivo tempo e bufere che si scatenano nella zona del Makalu La: ripiegarono dopo aver toccato i 7.500 metri. Durante la spedizione, i due trovarono i corpi di Pierre Demolombe e Marcel Margaine, due alpinisti francesi scomparsi sulla montagna poche settimane prima.

I polacchi chiesero il primo permesso per un’invernale sul Makalu nel 1987/88. Capo di quella spedizione, che comprendeva nel team sei polacchi e due americani, fu Andrzej Machnik. Il gruppo bivaccò in trune di neve e arrivò a 7.500 metri di quota prima doversi arrendere agli ormai spaventosamente celebri venti del Makalu.

Nel 1990 chiese il permesso un altro polacco: Krzysztof Wielicki, che aveva già intascato le prime invernali su 3 delle 4 montagne più alte della terra: Everest, Kanchenjunga e Lhotse. Provò a salire con una spedizione leggera che comprendeva soltanto altri tre membri: Anna Czerwinska, Ryszard Pawlowski e la belga Ingrid Bayens, ma la quota massima toccata fu di 7.300 metri. Gli spagnoli di Manuel Gonzalez Diaz ci provarono nel 1996, ma anche loro furono respinti dal vento a quota 7.200 metri.

Nel 2000, Wielicki volle tornare al Makalu in invernale. Quel gigante, la quinta montagna più alta della Terra, doveva essere suo. Aveva respinto troppi, illustri tentativi. Wielicki, con una spedizione composta da 10 persone, ci provò da tre lati: prima dalla Ovest, dove abbandonò a 5.800 metri quando si rese conto che il suo team non era in grado di risolvere un problema simile. Poi dalla sud, riuscendo solo a sfiorare i 6.400 metri. E infine dalla via normale, la nordovest, dove purtroppo, anche stavolta, le bufere di vento ebbero la meglio e lo costrinsero a ripiegare a quota 7.100.

Il 2006 fu l’anno del tragico e audace tentativo in solitaria di Jean Christophe Lafaille. L’alpinista francese riuscì ad arrivare, completamente solo e senza ossigeno, fino a quota 7.600 metri, dove bivaccò la notte tra il 26 e il 27 gennaio. All’alba partì per tentare la cima, e da quel giorno di lui non si ebbe più notizia. Scomparve e non venne mai più ritrovato.

L’anno scorso ci provarono due spedizioni, una italiana, con Nives Meroi, Romano Benet e Luca Vuerich, e l’altra kazaka, che vedeva in campo Denis Urubko e Serguey Samoilov. La Meroi e compagni raggiunsero quota 7000 prima di rientrare a causa di una violenta bufera di vento che ha letteralmente distrutto il campo base. I russi riuscirono a sfiorare i 7.400 metri, ma anche loro dovettero piegarsi al vento e rientrare a mani vuote.

Oggi, 9 febbraio 2009, è stato il giorno della svolta. Alle 14, ora nepalese, Moro e Urubko sono riusciti a toccare la vetta della montagna, approfittando di una finestra di bel tempo con venti che, per la maggior parte della giornata, spiravano a “soli” 70 chilometri orari. Non sono mancate le difficoltà, perchè le temperature hanno sfiorato i 40 gradi sottozwero e in cresta gli alpinisti sono stati investiti da raffiche molto più violente. Ma la cordata ha stretto i denti, e ha conquistato questo sogno lungo quasi trent’anni.

Sara Sottocornola

 

 

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