Lucien Bérardini e gli altri: 70 anni fa l’epica conquista della Sud dell’Aconcagua
Una parete pericolosa e gigantesca, sette fortissimi alpinisti, una vittoria che costa pesanti congelamenti. Poi la tragedia del 1995 che costa la vita a Hugues Beauzile, partito per l’Argentina insieme al “vecchio” Bérardini
All’inizio di gennaio del 1954, sei giovani alpinisti francesi (il “nonno” del gruppo ha trentadue anni) s’imbarcano nel porto di Bordeaux su una nave diretta a Buenos Aires. Lucien Bérardini, Adrien Dagory, Edmond Denis, Pierre Lesueur, Robert Paragot e Guy Poulet sono degli arrampicatori molto forti, che hanno affinato la loro arte sui blocchi di arenaria di Fontainebleau e sulle falesie calcaree del Saussois e di Freyr, nelle Ardenne.
Alcuni di loro, negli anni precedenti, hanno tracciato importanti vie nuove sul Monte Bianco, come quella che risale la Ovest del Dru, la muraglia di granito rossastro che incombe sulla Mer de Glace e il Montenvers. L’equipaggio della nave, però, non ha riguardi per quei giovani atleti con pochi soldi in tasca. “Ci trattavano come dei disgraziati”, racconterà cinquant’anni dopo uno di loro.
All’arrivo a Buenos Aires l’atmosfera è diversa. I sei vengono accolti trionfalmente alla Casa Rosada dal presidente argentino Juan Domingo Perón, appassionato di montagna e alpinismo. Il leader parla con loro per un intero pomeriggio e si fa spiegare nei dettagli il progetto di salire la parete Sud dell’Aconcagua, la cima più alta dell’Argentina e delle Americhe.
Quando gli alpinisti francesi gli spiegano che il pericolo, oltre che dalla roccia friabile e dal freddo, dipende dai seracchi e dalle cornici di neve che incombono sulla parete dall’alto, Perón propone di inviare l’aviazione a bombardare la Sud.
I sei rispondono “no grazie” alle bombe, ma accettano tutto il resto che viene offerto loro dal presidente. Un volo dalla capitale a Mendoza, veicoli militari fino a Puente del Inca dove inizia il sentiero, muli e guide verso la base della parete, viveri e vino a volontà.
L’Aconcagua, 6962 metri, è una montagna a più facce. Le facili ghiaie del suo versante occidentale, percorse già nel 1897 da Matthias Zurbriggen, grande guida del Monte Rosa, permettono a innumerevoli persone ogni anno di raggiungere la vetta. La parete Sud, battuta da enormi valanghe, è alta due chilometri e mezzo e larga più di cinque, e concorre con la Est dell’Everest, la parete Rupal del Nanga Parbat e la Sud dell’Annapurna al titolo di muraglia più alta e repulsiva del pianeta.
Oggi sulla Sud serpeggiano una quindicina di vie e di varianti, tracciate da cordate francesi, argentine e slovene. Settant’anni fa, invece, la Sud è un gigante sconosciuto. La sua esplorazione è una tappa del viaggio che, due estati australi prima, ha condotto un altro team transalpino sul granito del Monte Fitz Roy, in Patagonia.
Nella parte bassa della parete i sei francesi non incontrano problemi particolari. Il freddo è sopportabile, le difficoltà sono elevate ma non eccessive per degli ottimi alpinisti come loro. La via, che segue un sistema di creste secondarie, è quasi al riparo dalle scariche di neve, pietre e ghiaccio che cadono dalla parte alta della Sud. Fino al quarto bivacco i sei parigini scherzano, fumano, cantano delle arie d’opera oppure “Ça s’est passé un dimanche”, un successo di Maurice Chevalier.
Il quinto giorno, il 23 febbraio, tutto cambia. Il “Viento blanco” che soffia dall’Oceano Pacifico spinge la temperatura verso i 30° sotto zero, il cibo è finito, i fornelli non funzionano più, e i passaggi più difficili devono ancora essere superati. I sei decidono di proseguire verso l’alto, ma sanno che scendere per la via di salita è impossibile. Occorre completare la via a tutti i costi, poi scendere per la via normale. La posta in gioco è la vita.
Due volte, oltre i 6000 metri di quota, Lucien Bérardini, Lulù per gli amici, si toglie i guanti per riuscire a reggersi sugli appigli. Poi, prima di rimettersi le moffole, guarda la sua mano sinistra e capisce che il danno è fatto. “Lulù era furioso. Ma senza di lui, senza la sua collera, non saremmo riusciti a passare. Era stato invaso da una furia che non riusciva a controllare”, scriverà Robert Paragot, compagno di Bérardini in molte altre ascensioni.
Il 25 febbraio i sei francesi si abbracciano sulla cima dell’Aconcagua, 6961 metri. La discesa per le ghiaie della Canaleta e della via normale non ha storia. All’ospedale di Mendoza, però, cinque dei protagonisti devono subire amputazioni alle dita delle mani e dei piedi. L’unico a salvarsi è Robert Paragot. Lucien Bérardini, a ventitré anni, deve ricostruire il suo alpinismo e la sua vita.
“Per i piedi non ho avuto troppi problemi, si trattava sempre di posare lo scarpone sugli appigli. La mano, come atrofizzata, mi ha dato dei problemi più seri. Prima che al fisico, il colpo è stato al morale”, racconterà Lulù in un’intervista. “L’Aconcagua ci ha dato una bella mazzata, ma ce lo siamo andati a cercare, no? Io non ho dato la colpa né a noi, né alla montagna. Gli unici che avrei potuto incolpare, casomai, sarebbero stati i fabbricanti di scarponi”.
La Francia, leggendo e ascoltando le sue parole, torna al dramma del 1950, e alle amputazioni ancora più gravi subite da Maurice Herzog e Louis Lachenal dopo la vittoria sugli 8091 metri dell’Annapurna.
Nei decenni che seguono, Lucien Bérardini si allontana dall’alpinismo. Il suo lavoro di disegnatore industriale lo porta a lungo in Arabia Saudita. Quando va in pensione si trasferisce a Montpellier, nel Sud-ovest della Francia. Un giorno, mentre pesca in un fiume delle Cévennes, il suo sguardo si fissa su una parete calcarea, dove vede degli arrampicatori in azione.
Ci vuol poco, per un uomo come Lucien, per fare amicizia con Hugues Beauzile, il miglior climber di quel gruppo, che ha la stessa età di suo figlio, e spicca nel mondo alpinistico transalpino per la sua pelle scura (il padre è immigrato da Haiti) e per la sua abilità in parete. Sempre più spesso, sulle falesie del Sud della Francia, la capigliatura rasta di Beauzile compare accanto ai capelli bianchi e corti di Bérardini.
Nel 1993, i due visitano il Monte Bianco. E Hugues parte da solo, senza timore reverenziale, verso lo Sperone Walker delle Jorasses, di cui compie la terza invernale solitaria. “E’ come se l’allievo di un corso di vela, dopo un paio di lezioni, partisse per la traversata solitaria dell’Atlantico”, commenta Fred Vimal, uno dei migliori alpinisti francesi di quegli anni.
All’inizio del 1995, Lulù e Hugues partono per l’Argentina. Il vecchio leone vuole ripetere la Sud dell’Aconcagua quarantuno anni dopo la prima ascensione. Quando i due arrivano a Plaza de Francia, la piana ai piedi della parete, questa è carica di neve. Lucien propone di aspettare, e parte per un trekking di qualche giorno.
Il giovane Hugues, invece, attacca da solo la Sud, arrampica per quattro giorni nonostante le condizioni terribili, poi decide di fare dietro-front. Quando sta per scendere, però, viene raggiunto da due alpinisti corsi, Pierre Griscelli e Céline Rambaud, e decide di proseguire con loro. Quando i tre arrivano finalmente in cima, Hugues ha alle spalle undici bivacchi.
La discesa è elementare, ma i tre alpinisti non mangiano e non bevono nulla da giorni. Quando la squadra di soccorso li raggiunge, Hugues Beauzile si arrabbia, urla contro di loro, e poi muore. Due anni dopo, insieme alla madre di Hugues, Lucien disperde le ceneri del suo giovane amico ai piedi della parete più alta e selvaggia delle Ande. “Avrei dovuto insegnargli la pazienza!” ammette in un’intervista al ritorno.