Alpinismo

Diamond Couloir: la più bella via di ghiaccio dell’Africa ha 50 anni

Nel 1973, la salita di questa straordinaria linea sul Monte Kenya ha cambiato l’alpinismo in Africa. Da qualche anno il Diamond sembra sparito. Ma ogni tanto ricompare…

Il ghiaccio esiste anche nel cuore dell’Africa. Nel 1848, il missionario svizzero Johann Rebmann lo vede in lontananza, intorno al cratere del Kilimanjaro. “Vidi qualcosa di bianco in cima alla montagna del paese dei Chagga. Le mie guide non ne sapevano il nome, ma usavano la parola freddo. Era neve”, scriverà una volta tornato in patria.

E’ logico pensare che uno svizzero, anche se all’Equatore, si intenda di ghiaccio e di neve, ma Rebmann non viene creduto. Poi gli avvistamenti si ripetono, e i primi esploratori salgono la montagna. Nel 1889, il tedesco Hans Meyer e l’austriaco Ludwig Purtscheller raggiungono senza difficoltà i 5895 metri della cima.

Negli anni successivi vengono raggiunte anche le altre due grandi montagne dell’Africa. Il Ruwenzori, 5119 metri tra l’Uganda e il Congo, viene salito nel 1906 dal Duca degli Abruzzi e dalle guide di Courmayeur Joseph Pétigax, Laurent Pétigax, César Ollier e Joseph Brocherel.

Joseph è stato con il Duca sul Sant’Elia, Brocherel e Ollier nel 1899 hanno condotto sui 5199 metri del Monte Kenya lo scozzese Halford Mackinder, che li ha elogiati e li ha definiti “swiss guides”, guide svizzere. I due di Courmayeur tagliano centinaia di gradini per traversare un ghiacciaio sospeso. A causa della durezza del ghiaccio, che richiede decine di colpi di piccozza per ogni gradino, Mackinder lo battezza Diamond Glacier.

Nel Novecento, grazie alla vicinanza a Nairobi, il Monte Kenya viene visitato da molti alpinisti. Nel 1929 Eric Shipton, dopo aver annotato “quanto può sembrare ridicolo arrivare in una fattoria africana con piccozza, scarponi e decine di metri di corda” compie con Percy Wyn Harris la traversata delle due cime maggiori. Un anno dopo, con Harold Tilman, sale la magnifica cresta Ovest del Batian.

Prima della Seconda Guerra Mondiale, arrampicano sul Monte Kenya l’italiano Piero Ghiglione e lo svizzero Edouard Wyss-Dunant. Nel gennaio del 1943 Felice Benuzzi, Giovanni Balletto e Vincenzo Barsotti evadono dal Camp 354 di Nanyuki dove erano internati, compiono la loro romantica “fuga sul Kenya” e poi si riconsegnano agli inglesi.

Molti alpinisti ammirano il Batian e il Nelion dalle ghiaie e dai seneci della Valle Teleki. Tra i due, visibilissimo in mezzo alla roccia lavica scura, scende il Diamond Couloir, la lingua di ghiaccio che prolunga verso il basso il Diamond Glacier.

Nell’ottobre 1973, una cordata riesce a salire quella linea, ed entra nella storia dell’alpinismo. Capocordata è il californiano Phil Snyder, naturalista di mestiere e alpinista. Diventerà Chief Warden, capo dei ranger del Parco Nazionale degli Aberdares, il luogo dove vent’anni prima Elisabetta aveva saputo di essere diventata regina. Nel Parco Nazionale di Nairobi, in vista della città, farà erigere la torre merlata di Kilimia, ispirata ai castelli dei Crociati disegnati da Lawrence d’Arabia.

Il suo compagno, Thumbi Mathenge, è un ranger del Parco Nazionale del Monte Kenya, e non ha esperienza di arrampicata, ma la sua presenza ha anche un valore politico. In Africa, da tempo, le colonie britanniche e francesi hanno lasciato il posto a Stati indipendenti. La vetta del Kilimanjaro, dedicata al Kaiser Guglielmo II fino al 1965, ora si chiama Uhuru, “libertà” in lingua swahili.

Gli alpinisti del Mountain Club of Kenya, però, sono ancora tutti di pelle bianca, e lo stesso vale per quelli del Sudafrica, dove vige l’apartheid. La presenza di Mathenge sul Diamond Couloir, che Phil Snyder definisce “forse la più elegante via di ghiaccio del mondo”, è un segno di cambiamento e speranza.

Nella parte alta, i due alpinisti evitano un muro di ghiaccio minaccioso per una rampa più facile. Il passaggio più difficile è il muro di ghiaccio d’acqua del primo tiro. “Incredibilmente duro” scriverà Snyder. “Un ghiaccio bello, limpido, durissimo. Affrontarlo con mente razionale sarebbe stato un problema. L’unica è stata salirlo con lo spirito di uno scarabeo, che si muove lentamente senza pensare al futuro”.

L’ascensione di Snyder e Mathenge rende il Diamond Couloir famoso. Due anni dopo, per rettificare la via, arrivano gli americani Yvon Chouinard e Mike Covington. “La giornata era troppo calda per ficcare il naso in un canale”, scriverà Covington sull’American Alpine Journal, ma una grande scarica non fa danni.

Nella parte centrale, messe da parte le piccozze, bisogna incastrare le mani nella fessura tra roccia e ghiaccio. Poi Chouinard sale da capocordata il muro di ghiaccio dell’uscita, uscendo da una grotta con un passaggio acrobatico. La sua foto sul muro, tra minacciose stalattiti di ghiaccio, compare sulla copertina di Mountain.

Negli anni successivi le condizioni sono buone, e molte cordate ripercorrono il Diamond Couloir. La prima italiana è di Fausto De Stefani e Italo Bazzani nel 1979. Dieci anni dopo tocca ad Alberto Rampini, Angelo Pozzi, Massimo Boni, Daniele Pioli e Silvia Mazzani.

Il racconto dell’ascensione è in Diamond Couloir, emblema dei tempi, un bell’articolo che Rampini, parmense trapiantato ad Arco, scrive per il sito del CAAI. “Un duro tiro in dry-tooling (anche se allora non si chiamava così) ci fece capire che la situazione era ben cambiata” scrive l’autore.

Negli ultimi anni, il cambiamento climatico colpisce anche le montagne dell’Africa. Sul Ruwenzori scompaiono i “cavolfiori” di neve fotografati da Vittorio Sella nel 1906, sul Kilimanjaro se ne vanno le gradinate di ghiaccio che avevano emozionato migliaia di escursionisti e alpinisti.

Negli ultimi anni, lentamente ma inesorabilmente, anche la bellissima linea di ghiaccio del Diamond Couloir ha iniziato a diventare una delle innumerevoli vittime del riscaldamento globale, fino a quando all’inizio degli anni 2000 è stata ritenuta inscalabile per l’assenza di ghiaccio nella parte inferiore della via” scrive Alberto Rampini. Anche il Diamond Glacier è quasi scomparso.

Ma la via di ghiaccio più bella dell’Africa non si rassegna a morire, e ogni tanto riappare. Una volta gli alpinisti la affrontavano nella stagione secca di gennaio e febbraio, oggi la stagione migliore sembra quella delle piogge, da agosto a ottobre, quando l’umidità che avvolge il Monte Kenya riesce a trasformarsi in ghiaccio. Spesso la colata non si forma completamente, e la parte iniziale va salita in dry-tooling.

Nell’agosto 2005, percorrono la via quattro statunitensi, Kitty Calhoun, Jay Smith, Jim Donini e Brac McMillon. Qualche mese dopo tocca a due guide svizzere, Fred Salamin e Séverine Bornet. Nelle loro foto sull’American Alpine Journal, si vede il salto iniziale rivestito da ghiaccio abbondante.

Piove molto sulle colline del Kenya anche nell’ottobre 2018, quando altri due alpinisti riescono a ripetere la via. Julian Wright è un cittadino del Kenya, Trystan Firman è una guida alpina sudafricana, specialista delle effimere colate di ghiaccio dei Drakensberg, a nord di Città del Capo.

Sul ripidissimo salto iniziale i due salgono in dry-tooling, con tratti in artificiale. Bivaccano su una minuscola cengia, inzuppati dalla neve che cade implacabile e bagnata. All’alba il tempo è magnifico, e si riprende a salire nel canale, senza poter usare gli ancoraggi “ben visibili sulle pareti laterali, ma ora a 10-15 metri dal ghiaccio”.

Gli ultimi due tiri di corda, difficili e pericolosi, sono su neve “dalla consistenza dello zucchero”. L’ultimo tratto su roccia, dalla sella della Gate of Mists al Nelion, è incrostato di ghiaccio, e Trystan lo lascia all’amico Julian. Dopo un altro bivacco gelido, i due tornano alla base con una lunga serie di doppie lungo la parete Est.

Alla base delle rocce trovano la carcassa mummificata di un leopardo. I resti di un altro felino, un secolo fa, avevano accolto gli escursionisti sul Kilimanjaro. “Non sappiamo cosa il leopardo fosse andato a fare lassù” aveva scritto Hemingway, in una frase che è rimasta famosa.

 

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