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Fuga sul Kenya, la libertà secondo Felice Benuzzi e compagni

C’è una storia di libertà e di avventura, che vale la pena rileggere in questi giorni di immobilità forzata. Risale al 1943, settantasette anni fa, si svolge tra le foreste e le rocce del Monte Kenya. I protagonisti sono tre prigionieri di guerra italiani che, dopo lunghi preparativi segreti, evadono da un campo di concentramento britannico, e salgono verso la seconda montagna dell’Africa. 

I tre falliscono l’ascensione al Nelion, 5199 metri, la vetta più alta del massiccio. Toccano la facile Punta Lenana, 4985 metri, dove innalzano un tricolore fatto in casa. Poi si trascinano a valle e si consegnano agli inglesi, che li puniscono ma ammirano il loro exploit. 

“Alpinismo tra le belve” definisce l’avventura Dino Buzzati, nel 1948, sul Corriere d’Informazione. Un titolo suggestivo, ma che viene scritto dopo il ritorno della pace, quando la libertà è ridiventata normale. 

A ideare l’evasione alpinistica sul Monte Kenya è Felice Benuzzi, un ufficiale triestino che ha arrampicato con Emilio Comici. Al ritorno della pace, sarà ambasciatore d’Italia in Uruguay (con molte puntate sulle Ande), Nuova Zelanda e Australia. Il suo libro, Fuga sul Kenya nella versione italiana, No Picnic on Mount Kenya in inglese, è un best-seller della letteratura di montagna.

Il Monte Kenya

Tutto inizia nell’estate del 1940, quando l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista isola il Kenya dall’Europa. Dopo un’offensiva italiana, gli inglesi passano al contrattacco. Nel marzo del 1941 l’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia sono in mano britannica, ad aprile il Negus Hailé Selassié rientra ad Addis Abeba. 

Migliaia di ufficiali, sottufficiali e soldati italiani sono prigionieri di guerra. Alcuni vengono trasferiti in India, altri restano in Africa. Benuzzi viene rinchiuso nel Campo 354, presso Nanyuki, ai piedi del Monte Kenya. Intorno al campo sono dei campi coltivati. Poi inizia la foresta che riveste la montagna. 

Una sera, oltre i reticolati, Benuzzi vede apparire il Monte Kenya. E’ una cima “argentea, circonfusa di nubi, tagliente”, circondata da “ghiacciai che sembrano sospesi nel vuoto, irreali”. “Ha qualcosa del Monviso, ma lo batte” pensa l’ufficiale triestino. 

La visione dura pochi minuti, ma la voglia di salire fin lassù, per un uomo che sa di dover restare in prigionia per anni, significa sentirsi ancora vivo. Felice Benuzzi coinvolge nel progetto Giovanni Balletto, anche lui alpinista, e Vincenzo Barsotti. 

Pezzi delle reti di canapa delle brande servono a intrecciare delle corde, dei rottami di ferro si trasformano in rudimentali piccozze e ramponi. Un po’ di cibo delle razioni viene accantonato. L’unica fonte di informazioni è l’etichetta di una scatoletta di carne, con l’immagine del versante meridionale del monte. Ma Benuzzi, Barsotti e Balletto salgono dall’altra parte.

L’evasione dal campo di prigionia

La sera del 24 gennaio 1943, i tre evadono dal Campo 354. S’inoltrano nella foresta, e la risalgono incontrando rinoceronti ed elefanti. Il 4 febbraio Benuzzi e Balletto lasciano Barsotti in una scomoda tenda, risalgono un ghiaione e attaccano lo spigolo Ovest del Batian, che ha difficoltà fino al quarto grado.

Sono legati con una sottile e malsicura corda di agave, non sono attrezzati per il freddo, ma l’arrampicata (“ginnastica tanto attesa e tanto cara!”) riempie Felice Benuzzi di gioia. Superata in diagonale la Punta Dutton, e traversato un canalino ghiacciato, la parete diventa verticale.

Oltre una forcella e delle rocce levigate, la parete è coperta di neve fresca. Giovanni Balletto, Giuàn nel racconto di Benuzzi, arrampica da primo, ben sapendo che la corda non può reggere un volo. Alle 13, quando una bufera di neve investe la montagna, arriva il momento della rinuncia. 

Divorate le magre provviste (pezzetti di cioccolato, noccioline e zucchero rimasti dal pacco natalizio di Benuzzi), Giuàn cala di peso il compagno, per poi scendere in corda doppia. Dopo dodici ore in parete, i due rimettono piede sul ghiaione e tornano da Barsotti.        

Due giorni dopo, Felice e Giovanni partono dalla tenda all’una del mattino, e salgono fino ai 4985 metri della Punta Lenana. Si siedono al sole, vedono dall’altra parte la Austrian Hut, un piccolo rifugio di legno. Poi lasciano un tricolore fatto in casa e iniziano l’interminabile discesa.

La bandiera, ritrovata qualche giorno più tardi da una comitiva inglese, dimostra che i prigionieri sono saliti lassù. Tre giorni di discesa nella foresta, con la paura di leoni, elefanti e bufali, riportano i tre italiani al Campo 354, dove si riconsegnano agli inglesi. Il comandante, ammirato, riduce da 28 a 7 i giorni di punizione. 

Di quei giorni di cella conservo un ricordo graditissimo, come d’un degno epilogo della nostra spedizione” scriverà Felice Benuzzi nel libro. Una notte, attraverso le sbarre, rivede in lontananza la montagna. “Sembrava più bella che mai, forse perché non l’avevamo vinta”. 

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5 Commenti

  1. Vicenda che cade a fagiuolo a proposito dei trasgressori…incappati nelle maglie ..(chissa’quanti altri sono sfuggiti)
    PROPOSTA: convertirei le pene pecuniarie e penali in tanti n bonus da decidere.
    Bonus = escursione con guida inadempiente gratis a favore di personale medico infermieristico..
    Oppure consistente percentuale di sconto nella tariffa a medici ed infermieri.
    Sempre si invoca la galera( ma dove sono tutte ste celle , tribunali, giudici ), invece della pena la “riparazione del “danno”.Non e’poi da escludere che le due Guide siano anche membri del SoccorsoAlpino, nel qual caso si tratterebbe di aiuto reciproco a buon rendere.

  2. Libro interessante, che avevo letto tempo fa. La montagna, ľidea della fuga solo per raggiungerla e provare a scalarla tiene in vita i protagonisti costretti in un campo di prigionia. I prigionieri, per la legge di allora erano legittimamente reclusi. La loro è stata a tutti gli effetti una trasgressione. Probabilmente la fuga e la relativa avventura sul monte Kenia ha dato loro la forza psicologica di sopportare la prigionia. Buona lettura.

  3. Gran bel libro qui però c’è poco da ironizzare e banalizzare tutto questo non è avvenuto o progettato dietro un pc ma è un fatto avvenuto realmente al quale gli stessi inglesi riconobbero gran valore saper cogliere il valore e dare il giusto peso…. forse è il caso di non coniugarlo con due giovanotti che non erano militari e tanto meno prigionieri di guerra e non fuggivano da un campo di detenzione e che nulla hanno da spartire con infermieri e medici in prima linea nell’assistenza ai pazienti per i quali valgono valori che allo stato attuale non appartengono ai due diversi interpreti della realtà…mi spiace Albert ma su questi valori non si banalizza

  4. Da avventura a lezione di vita
    I protagonisti sanno trasformare una trasgressione in una fuga memorabile che nella penna di benuzzi diventa una storia di libertà, di caparbietà e di coraggio, di stupore di fronte alle meraviglie della natura, ma anche di solidarietà tra compagni, di rispetto delle regole militari, di volontà ferrea e sfida con se stessi (l’attrezzatura raffazzonata, la forza di disegnare e di superare le malattie)
    Ma più che una storia mi è sembrata una cronaca autobiografica e comunque poetica di un’impresa eccezionale, per la quale ho tutto il rispetto ma scarsa condivisione.

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