Film

Il grande silenzio di Sergio Corbucci e il paesaggio dolomitico

Girato nel 1968 è un western all’italiana atipico, nichilista e semi-crepuscolare, incastonato nell’immaginario del genere grazie alla particolarità della sua ambientazione: la montagna d’inverno

Il vecchio West è finito. Pistoleros e bounty killer, banditi e sceriffi, saranno uniti in un mondo migliore”, dice il governatore della contea all’inizio di Il grande silenzio (1968) di Sergio Corbucci. Sono le parole di un personaggio corrotto che, prevedendo di lì a breve un’amnistia per tutti i banditi locali, cerca di cancellare dallo Utah la “legge del più forte” per meri motivi personali. Si tratta di una frase che, nell’economia del film, potrebbe quasi passare inosservata, ma che se osservata a distanza nel panorama dello spaghetti western dell’epoca, gli sceneggiatori del film (oltre a Sergio Corbucci: Mario AmendolaBruno CorbucciVittoriano Petrilli) sembrano mettergli in bocca per sottolineare quello che nel western di quegli anni era nell’aria: l’idea della fine di un mondo, di un’epica e dei suoi valori – il western classico. Un cinema che, quasi al crepuscolo, comincia a creparsi e a rivelare o una vena ironica, giocosa e autoriflessiva (una spinta che sarà definitiva negli anni ’70 della contestazione) o una più “seriamente” de-mitizzante.

Lo stesso anno usciva, non a caso, C’era una volta il West di Sergio Leone, manifesto di un West al tramonto, avvolto dalla nostalgia e segnato, nella sua fine, dall’arrivo del treno. Il grande silenzio di Corbucci ne è esteticamente e scenicamente agli antipodi, ma a fondo ne conserva quella stessa idea di fine, portandola a un drammatico e alienato sfinimento tramite ambientazioni montane e “lunari”, in una spessa coltre di neve che è il riflesso di un antieroe, Silenzio (Jean-Louis Trintignant), il cui mutismo totale è l’estrema conseguenza del Clint Eastwood leoniano e dove lo scontro tra forze del bene e del male si consuma in un nichilismo forse unico nell’intera storia del western all’italiana.

Musicato da Ennio Morricone, Il grande silenzio è ambientato nello Utah del 1898 e racconta lo scontro tra un gruppo di “buoni” fuorilegge (costretti a furti per sopravvivere) e i locali bounty killer, iene spietate guidate dal pazzo Tigrero (Klaus Kinski) e che, protetti dal losco banchiere Pollywood (che lucra sul business delle taglie) stanno sterminando la popolazione di Snow Hill per incassare le taglie. Isolati in mezzo alla neve in alta montagna tra sparute baracche di legno e con lo stomaco dolorante per la fame, gli abitanti di Snow Hill affidano la loro sete di giustizia al mercenario Silenzio (chiamato così anche “perché dopo che è passato resta soltanto il silenzio e la morte!”) il quale, in parallelo alle indagini dello sceriffo Corbett, cercherà di porre fine a tale strage di innocenti.

Come spesso accade nel western italiano, l’eroe è mosso da un trauma passato: quello di Silenzio è un mutismo tragico, ma la sua figura solitaria non è la giustificazione di un immobilismo. Silenzio è il giustiziere della comunità. E per quanto il western di Corbucci sia qui ai suoi massimi livelli di alienazione e nichilsmo, tragico e mortifero, il suo è un eroe fino alla fine positivo, preso sul serio e drammaticamente orientato. Insomma, per quanto atipico, il volto di un western che si prende decisamente sul serio: la fine non è ancora arrivata.

Le Dolomiti d’inverno come lo Utah

Il grande silenzio è un caso forse unico di spaghetti western invernale. La sua geografia, sulla carta, è quella dello stato dello Utah ma i suoi paesaggi sono in realtà le Dolomiti: girato tra Auronzo di Cadore, Misurina, Cortina d’Ampezzo e San Cassiano in Badia, il film (fotografato da Silvano Ippoliti) usa il paesaggio a fini drammatici: da una parte, l’isolamento dato dall’ostile paesaggio invernale è lo specchio dell’isolamento dei personaggi, costretti al riparo o ad un’esplorazione faticosa e ostile; dall’altra, l’impedimento della natura è di tutt’altro tipo rispetto a quello del western desertico. Qui, infatti, per sopravvivere non bisogna più resistere alla sete ma al freddo, al congelamento.

E così i personaggi vestono grandi pellicce, strati di vestiti (lo stesso personaggio di Kinski viene definito come “quello con il cappello da prete e la pelliccia da donna”), si scaldano davanti al fuoco e si riparano dietro finestre appannate dal gelo. La locanda del west, iconica, c’è sempre, ma i suoi avventori la usano come riparo dalle intemperie – non mancando di ricordare a chi non vuole chiudere la porta, che il freddo non è uno scherzo (come nella scena iconica della prima vendetta di Silenzio). L’imperturbabilità delle grigie rocce e l’oscurità dei fitti boschi di conifere, opposti al bianco ottico dalla neve, fanno infine gioco al contrasto drammatico, risaltando il rosso acceso dei fiumi di sangue versati su quelle terre.

Quello del western dolomitico è uno scenario atipico che Corbucci incastona nella storia del genere, rendendolo così iconico da ispirare – diversi anni dopo – lo stesso Quentin Tarantino, che lo prenderà di ispirazione per The Hateful Eight, una storia di banditi chiusi dentro una locanda durante una tempesta di neve.

Il grande silenzio è disponibile per lo streaming su Prime Video.

Tags

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close