Alpinismo

L’alpinismo “antico” di Fabrizio Manoni

Il gusto dell’esplorazione anche su montagne vicine a casa ma poco o nulla frequentate. Un piacere d’altri tempi che lo scalatore ossolano ha messo in cima alla scala delle priorità

Un alpinismo “antico” alla ricerca delle pareti poco frequentate ma sulle quali la roccia deve regalare grandi soddisfazioni. Questa in sintesi la “via” su cui si è mosso negli anni Fabrizio Manoni, alpinista ossolano balzato suo malgrado agli onori della cronaca nel 2007 quando fu costretto ad effettuare un bivacco a 8.600 metri di quota sull’Everest. Un record del quale avrebbe fatto volentieri a meno, naturalmente. Per quanto abbia scalato in tutto il mondo (all’attivo ha anche due ascensioni in solitaria sulla Diretta all’Alpamayo e sulla difficile parete sud dell’Oschapalca), è nelle sue vallate ossolane che Manoni trova quanto più si avvicina al suo ideale dell’andar per monti. Pareti dimenticate, o pochissimo frequentate a causa di avvicinamenti molto lunghi o laboriosi, sulle quali è ancora possibile vivere il piacere dell’esplorazione. A due passi da casa.

Che cosa fa scattare la scintilla tra te e una parete?
Mi piace ricercare montagne in posti poco frequentati o dimenticati negli anni, come la Val Grande dove sono di casa. Il mio potrebbe definirsi un alpinismo esplorativo. Le pareti su cui mi piace aprire nuove linee di salita sono solitamente lontane e nascoste, che appena magari si scorgono perché richiedono ore di avvicinamento. Sono pareti “intuitive” dove oltre alla ricerca nel posto devono anche esserci la bellezza della linea e della roccia, senza dimenticare la ricerca del grado. Spesso, infatti, si tratta di vie con difficoltà di tutto rispetto. Per me è sempre stata un po’ una “filosofia”. Accadde anche nel lontano1986, in Himalaya, quando scalai lo Schiviling per la parete nord est con 8 bivacchi consecutivi in parete insieme a Enrico Rosso e Paolo Bernascone, poi scomparso in Karakorum scalando il Gasherbrum 2. Una salita mitica, ma poco frequentata anche per le fatiche da mettere in conto.

Le fatidiche ravanate?
Le ravanate sono soltanto un mezzo per raggiungere l’obiettivo, in certi posti sono inevitabili: non ci sono che tracce antiche chissà da chi sono state lasciate magari anche solo da camosci. Per fare un esempio, una delle ultime vie che ho scalato è il Gran Diedro del Lesino sui Corni di Nibbio, tra la Val Grande e la Valle centrale dell’Ossola, con Felice Ghiringhelli. Questa salita è frutto di storie che si intrecciano: da un lato la mia, che ogni mattina vedevo dal garage di casa sbucare quell’attraente e lontano spigolo, dall’altra quella di Felice Giringhelli grande conoscitore dei Corni di Nibbio e che sapeva che quella salita nascondeva un mistero.

Si diceva infatti che intorno al 1948 tre alpinisti ornavassesi, anche non troppo esperti su salite con difficoltà così tecniche, la avessero salita. In quella occasione non furono scattate foto o altro, così la notizia fu ricordata e tramandata solo a voce. Una salita che ha come avvicinamento ben 5 ore nel nulla seguendo tracce dettate solo dall’esperienza. Prima di iniziare a scalare si bivacca in un vallone nascosto che cela alla vista i reali 600 metri di salita che partivano più in basso. Già questa è stata una grande emozione, che ha raggiunto il suo apice quando sono arrivato in cima e ho vissuto la sensazione di essere davvero in un ambiente primordiale, incontaminato e selvaggio. Di salite ne ho fatte tantissime e in ogni luogo ma questa mi ha lasciato qualcosa in più.

Ma dei “primi salitori”?
Nessuna traccia, abbiamo avuto il tempo di guardare un po’ ovunque ma non abbiamo visto nulla che possa confermare quella precedente salita. Anche noi abbiamo voluto rispettare il più possibile l’ambiente scalando in trad con protezioni mobili levate dopo l’ascensione.

Ritieni che le vie che stai aprendo avranno altre ripetizioni?
Sono salite che richiedono voglia di esplorare e la consapevolezza di dover compiere lunghi avvicinamenti e magari un bivacco. A tutto questo si aggiunge la necessaria esperienza in ambienti severi e spesso soggetti a mutazioni repentine. Non credo saranno in molti a ripetere certe salite, anche se riscuotono sempre interesse a livello alpinistico.

In Val Grande e nelle aree limitrofe sei il solo ad aprire nuove vie?
No. Ci sono altri scalatori, ma nei decenni passati tutta l’area geografica che va da Mergozzo alla Formazza o al Monte Rosa era più frequentata. Un po’ a causa della lontananza delle pareti, molto per via della roccia che va capita (e a volte non basta lo stesso). Quando con Maurizio Pellizzon abbiamo aperto una via sul triangolo Corneva la roccia era così brutta che lo abbiamo schiodato per paura qualcuno si facesse male ripetendolo. Con Paolo Stoppini e Simone Antonietti abbiamo aperto una bella via nella Valle di Mondelli sulla remota parete nord ovest della Laugera. Anche in quel caso sono state necessarie oltre 3 ore per arrivare all’attacco.

Nuovi progetti nel cassetto?
Ora sono alle prese con un nuovo progetto tra valle Antrona e valle Bognanco su di una parete che ha fama di essere di pessima qualità, e quindi evitata, ma dove mi sembra di aver individuato una direttissima con roccia compatta. Per quest’ultima vedremo. Ma spero che sia come per il Gran diedro del Lesino, ovvero che regali il piacere di svelare un piccolo mistero alpinistico.

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Un commento

  1. Ad essere precisi il record del bivacco più alto spetta a Doug Scott e Dougal Haston quando, nel 1975 di ritorno dalla vetta dell’Everest dopo aver scalato in prima assoluta la parete sud ovest, dovettero scavarsi una buca nei pressi della cima Sud a 8.700 metri passando la notte con l’ossigeno delle bombole orami esaurito.
    Più in la nel tempo (1999), il fu Babu Chiri Sherpa piantò una tendina nei pressi della cima della medesima montagna e vi passò la notte, ma in tal caso è stato un evento voluto e non improvviso per cui non credo vi si possa attribuire il termine bivacco.

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