Turismo

Quelle palafitte con vista sulle Dolomiti di Brenta

L’area archeologica di Fiavè, Patrimonio Unesco, racconta una storia iniziata 5.000 anni fa su un altopiano che si distende al cospetto della Cima Tosa e del Carè Alto

Un gran bel posto. Le cime meridionali delle Dolomiti di Brenta cingono a nord l’altopiano morenico di Lomaso sul quale si trova di Fiavé, in Trentino. Complici gli ampi spazi aperti, lo sguardo spazia lontano e si ammirano così vette famose quali la Cima Tosa (con i suoi 3.173 metri è la seconda per altezza delle Dolomiti di Brenta), la Cima d’Ambiez, il Castello dei Camosci e la Cima Vallon, mentre volgendo lo sguardo a occidente è il Carè Alto a svettare sopra i pendii boscosi.
Bello e, soprattutto, comodo. Questo devono aver pensato le genti che per prime vi si insediarono nel Tardo Neolitico (3.800-3.600 a.C.) e quelle che, successivamente, scelsero di fare di questo luogo la loro residenza stanziale nell’Età del Bronzo fino al 1.500-1.300 a.C.

Già, perché a quel tempo buona parte dell’odierno altopiano era coperto dalle acque del Lago Carera e c’erano le condizioni perfette per agricoltura e allevamento, le attività che caratterizzavano la vita delle comunità che lo popolavano. Gente che sapeva scegliere sempre la soluzione più pratica. Si spiega così la costruzione di villaggi su palafitte a protezione dall’umidità, e dalle intrusioni di animali pericolosi. Il lago nel corso dei millenni si è prosciugato quasi del tutto, dando però vita a una estesa torbiera che ha, involontariamente, preservato parte di quegli originari insediamenti. Che oggi sono ancora visibili.

Fedeli ricostruzioni, trucchi edilizi inclusi

L’area archeologica di Fiavè, inserita nel sito seriale Unesco “siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino”, è attraversata da un sistema di passerelle sopraelevate che portano fino a due piccoli stagni, residui dell’antico e ben più ampio invaso, dai quali spuntano i pali sui pali poggiavano le palafitte. La zona è anche protetta della Riserva Naturale Fiavé-Carera caratterizzata dalla tipica  vegetazione palustre con canneti e paludi a grandi carici (Caricetum elatae e Caricetum rostratae), prati umidi e boschetti paludosi di salice cenerino (Salix cinerea) e frangola (Frangula alnus). Qui, inoltre, nidificano il germano reale, la gallinella d’acqua, la folaga, la cutrettola e la cannaiola verdognola.

La passeggiata sulle passerelle conduce  all’ingresso del Parco Archeo Natura. Inaugurato nel 2021, è una fedele ricostruzione di un villaggio palafitticolo dell’Età del Bronzo. Sono sei le palafitte ricostruite ai margini di un ulteriore stagno su basi rigorosamente scientifiche e utilizzando gli stessi materiali e accorgimenti costruttivi del tempo. Per realizzare i tetti con le canne (di uno spessore di circa 40 centimetri)  è stato necessario avvalersi dell’opera di specialisti provenienti dall’Ungheria, tra i pochissimi  capaci di effettuare la lavorazione in modo corretto. Anche arredi, rivestimenti e utensili sono copia fedele di quelli originali e si possono osservare nelle tre le palafitte attrezzate per la visita. Lo spettacolo è emozionante e permette di immergersi nella quotidianità degli abitanti. Ma si notano anche alcune curiosità urbanistiche. Palizzate protettive sono, per esempio, costruite sul lato esterno delle dimore, quello verso l’acqua:  era importante difendersi da onde e vento più che da eventuali nemici provenienti da terra.

I tesori del Museo delle Palafitte di Fiavé

Il viaggio nel tempo continua un chilometro più a nord, nel centro del paese di Fiavé dove è stato allestito  il Museo delle Palafitte nelle cui sale sono raccolti numerosi reperti recuperati dalla vicina torbiera. L’esposizione si articola su due piani e racconta con allestimenti di immediata comprensione, grazie anche al ricco apparato testuale e fotografico, l’insediamento del popolo delle palafitte.  Fedeli ricostruzioni delle diverse tipologie abitative e dei metodi di costruzione si accompagnano a un gran numero di reperti considerati dagli studiosi di straordinaria importanza: monili in bronzo, oro e ambra, vasi di ceramica, stoviglie e utensili in legno, strumenti di lavoro come secchi, mazze, falcetti. Le particolari condizioni ambientali hanno perfino permesso la conservazione di derrate alimentari come spighe di grano, corniole, nocciole, mele e pere. Ogni bacheca contiene un tesoro.

I carri carichi di torba andavano lontano, in gran parte  del Trentino occidentale e almeno fino al Basso Garda. Era un combustibile prezioso, ma ben presto venne utilizzata anche come terriccio vegetale da giardinaggio. Si era a metà del XIX secolo e l’estrazione di materiale dalla torbiera di Fiavè avveniva a spron battuto, il mercato era fiorente. Nessuno, all’epoca, fece caso a quei pali conficcati a centinaia nel terreno, che anzi, probabilmente rappresentavano un fastidio, così come i resti di utensili e armi che gli scavi portavano alla luce. “A  quell’epoca neppure dai dotti stessi se ne valutava l’importanza”, scriveva nel 1893 don Luigi Baroldi, appassionato ricercatore locale che in qualche modo riuscì  ad attirare l’attenzione della comunità scientifica. Ma è a partire dal 1920 che le attività estrattive vennero sottoposte a qualche modesto  vincolo archeologico, mentre per arrivare a una ricerca sistematica occorse aspettare fino al 1968.
Molto materiale prezioso era andato perduto ma quel che si salvò racconta comunque una storia insospettabile e di grandissimo interesse storico-archeologico, che da dieci anni esatti si può ripercorrere nelle sale del Museo delle Palafitte creato nella elegante Casa Carli di Fiavè. L’esposizione si articola su due piani e racconta con allestimenti puntuali e di immediata comprensione, grazie anche al ricco apparato testuale e fotografico, l’insediamento del popolo delle palafitte nel Tardo Neolitico (3.800-3.600 a.C.) e il successivo ampliamento nell’Età del Bronzo fino al 1.500-1.300 a.C.  Fedeli ricostruzioni delle diverse tipologie abitative e dei metodi di costruzione si accompagnano a un gran numero di reperti considerati dagli studiosi di straordinaria importanza: monili in bronzo, oro e ambra, vasi di ceramica, stoviglie e utensili in legno, strumenti di lavoro come secchi, mazze, falcetti. Le particolari condizioni ambientali hanno perfino permesso la conservazione di derrate alimentari come spighe di grano, corniole, nocciole, mele e pere. Ogni bacheca contiene un tesoro. Tutto questo è rimasto sepolto per millenni nella torba poche centinaia di metri più in là, dove una volta sorgeva il lago Carera. Ci incamminiamo dunque lungo la strada sterrata pianeggiante che porta al sito.

La passeggiata tra i campi consente di osservare le pareti meridionali delle Dolomiti di Brenta che cingono a nord l’altopiano morenico di Lomaso sul quale si trova di Fiavè. Si ammirano così vette famose quali la Cima Tosa (con i suoi 3.173 metri è la seconda per altezza delle Dolomiti di Brenta), la Cima d’Ambiez, il Castello dei Camosci e la Cima Vallon, mentre volgendo lo sguardo a occidente è il Carè Alto a svettare sopra i pendii boscosi.

L’area archeologica, inserita nel sito seriale Unesco “siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino” è attraversata da un sistema di passerelle sopraelevate che portano fino a due piccoli stagni, residui dell’antico e ben più ampio invaso, dai quali spuntano i pali sui pali poggiavano le palafitte. “Non bisogna però cadere nell’equivoco che quelle genti vivessero di pesca”, spiega Franco Marzatico, soprintendente per i beni culturali della Provincia autonoma di Trento. “Erano piuttosto agricoltori e allevatori che approfittavano del terreno umido e fertile per le loro attività”. Marzatico, al tempo giovanissimo, partecipò agli scavi di 50 anni fa e da allora ha seguito passo dopo passo l’evoluzione delle ricerche. “Possiamo dire con buona certezza che nell’Età del Bronzo qui si allevavano in prevalenza ovini e caprini e che gli agricoltori avevano iniziato a praticare la rotazione delle coltivazioni per sfruttare al meglio le potenzialità del terreno. E le palafitte rappresentavano la soluzione abitativa più funzionale in un ambiente lacustre”. Non ci sono dati sicuri, invece, sul numero degli abitanti delle palafitte di Fiavè, anche se le stime più attendibili parlano di al massimo un centinaio di persone contemporaneamente.
L’area è oggi protetta della Riserva Naturale Fiavè-Carera caratterizzata dalla tipica palustre con canneti e paludi a grandi carici (Caricetum elatae e Caricetum rostratae), prati umidi e boschetti paludosi di salice cenerino (Salix cinerea) e frangola (Frangula alnus) ed è popolata da una ricca avifauna. Qui nidificano, per esempio, il germano reale, la gallinella d’acqua, la folaga, la cutrettola e la cannaiola verdognola.

La passeggiata si conclude all’ingresso del Parco Archeo Natura. Inaugurato all’inizio dell’estate del 2021, è una fedele ricostruzione di un villaggio palafitticolo dell’Età del Bronzo. Sono sei le palafitte ricostruite ai margini di un altro stagno su basi rigorosamente scientifiche con l’utilizzo degli stessi materiali e dei medesimi accorgimenti costruttivi del tempo. Per realizzare i tetti con le canne (di uno spessore di circa 40 centimetri)  è stato necessario avvalersi dell’opera di specialisti provenienti dall’Ungheria tra i pochissimi  capaci di effettuare la lavorazione in modo corretto. Anche arredi, rivestimenti e utensili sono copia fedele di quelli originali e si possono osservare nelle tre le palafitte attrezzate per la visita, una delle quali viene utilizzata per laboratori didattici. Lo spettacolo è emozionante e permette di immergersi nella quotidianità degli abitanti. Ma si notano anche alcune curiosità urbanistiche. Palizzate protettive sono, per esempio, costruite sul lato esterno delle dimore,  quello verso l’acqua. “Era importante difendersi da onde e vento più che da nemici o animali pericolosi”, spiega Marzatico. “Lo confermano anche i rinvenimenti di armi, con frecce dalle punte tondeggianti costruite per stordire, non per trafiggere”. Interessante, e ben visibile,  anche il sistema ideato per garantire la maggior stabilità alle costruzioni mediante l’utilizzo di travi appoggiate orizzontalmente sul fondale e fissate ai pali verticali con legature in frasca ritorta.

Si viveva in pace in un’economia di sussistenza e non di espansione, gli scambi con altre comunità erano limitati. Ampio spazio è dedicato alle lavorazioni artigianali con laboratori e installazioni dedicati alla lavorazione della ceramica e del legno, all’arte dell’intreccio e alla metallurgia. Funzionale alla costruzione erano invece la scelta e la preparazione dei pali, soprattutto di larice e pino. E’ difficile però immaginare come si riuscisse a infiggerli per due o tre metri nel terreno, per quanto morbido questo fosse. Accanto all’ingresso del Parco è stata inoltre allestita una sala proiezioni dove assistere a ciclo continuo a interessanti video esplicativi. Il viaggio nel tempo continua qualche centinaio di metri più a sud, spostandosi verso il Passo del Ballino, dove si trovano i resti dell’insediamento di Dos Giustinaci risalente all’ultima parte del II millennio a.C. e si possono osservare i resti delle prime costruzioni in pietra.

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