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Gelo sulla Civetta. 1963, la prima invernale della Solleder

Eiger, Grandes Jorasses, Cervino. La gara per le prime invernali delle grandi pareti Nord si svolge in gran parte sulle Alpi occidentali. C’è una straordinaria eccezione, e riguarda la via Solleder della Civetta, sulla muraglia più severa delle Dolomiti. Ricordiamo questo evento di sessant’anni fa anche grazie alle splendide foto scattate da Toni Hiebeler, che Ignazio Piussi ha conservato nel suo archivio, e che suo figlio Alessandro ci ha consentito di utilizzare. Grazie! 

Una gelida sera di marzo del 1963, nel cuore di una parete gigantesca, un uomo cerca di accendere un fuoco su un terrazzino roccioso. Ha a disposizione solo due cunei di legno fatti a pezzi con la piccozza e il coltello, riesce comunque ad accenderli, e a riscaldare del tè e una minestra.

L’uomo che dà fuoco a quel legno è un maestro di vita all’aria aperta. Si chiama Ignazio Piussi, ha ventott’anni, è nato ai piedi delle Alpi Giulie. Nella vita è stato guardiano di capre, taglialegna e minatore, sviluppando una straordinaria forza fisica.

A vent’anni, da sciatore, è diventato campione italiano juniores di combinata nordica, poi ha fatto la naja nell’artiglieria alpina. Per decenni ha fatto il cacciatore e il bracconiere, “onestamente e per mangiare”, come ha sempre raccontato senza peli sulla lingua.

Alpinista fortissimo, compie gran parte delle sue salite più belle sulle pareti delle Giulie, fredde in estate e gelide d’inverno. Le sue vie nuove e le sue solitarie sul Piccolo Mangart di Coritenza, la Madre dei Camosci e la Vèunza non lo rendono famoso nel resto delle Alpi. Poi, negli anni Sessanta, Ignazio Piussi inizia ad andare di moda.

Nel 1961, dopo la tragedia alla quale sopravvivono Walter Bonatti, Roberto Gallieni e Pierre Mazeaud, Piussi tenta il Pilone Centrale del Monte Bianco insieme al francese Pierre Julien, poi partecipa (con Julien, René Desmaison e Yves Pollet-Villard) alla gara vinta dai britannici Chris Bonington, Don Whillans e Ian Clough e dal polacco Jan Djuglosz.

Nel 1963 Roberto Sorgato, bellunese innamorato della Civetta, lo coinvolge in un’altra competizione, quella per la prima invernale della Solleder, la prima via di sesto grado delle Dolomiti, che i bavaresi Emil Solleder e Gustav Lettenbauer hanno tracciato nel 1925.

Del gruppo fa parte anche il lombardo Giorgio Redaelli, con cui Piussi ha aperto una via sulla Torre Trieste. E Toni Hiebeler, alpinista e giornalista bavarese che è diventato famoso nell’inverno del 1961 compiendo con Walther Almberger, Toni Kinshofer e Anderl Mannhardt, la prima invernale della parete Nord dell’Eiger.

Prima di attaccare la parete Roberto Sorgato si ammala, e viene rispedito a valle per curarsi sulla teleferica di servizio del rifugio Tissi, che rischia di ribaltarsi a causa del vento e gli regala una discesa terrificante. Pochi giorni dopo, con Natalino Menegus e Marcello Bonafede, Sorgato si lancia a sua volta sulla Solleder e la percorre con soli tre bivacchi, arrivando in cima poche ore dopo la prima cordata. Un’impresa magnifica, ma che pochi ricordano.

Lasciato Sorgato al rifugio, Hiebeler, Redaelli e Piussi attaccano all’alba del 28 febbraio, risalendo con le maniglie jumar le corde lasciate qualche giorno prima. Alla base, Ignazio e Toni scommettono una bottiglia di whisky sul numero di notti che passeranno in parete. L’italiano dice sei, il tedesco sette, e ha ragione.

Il primo giorno è dedicato allo zoccolo, il secondo al “camino bloccato” e agli altri passaggi della prima parte della via. Poi la situazione diventa drammatica. Il fornello di Hiebeler si spegne, il tedesco chiede di passargli l’altra bottiglia di benzina, gli altri lo guardano perplessi.

In realtà, Toni ha lasciato il carburante di riserva al rifugio. “Madonna!” esclamano gli altri quando si rendono conto che, senza sciogliere neve per bere non possono restare una settimana in parete. Ma Ignazio ha l’idea che risolve. “Potremmo far fuoco con i cunei di legno!”

Sembra una barzelletta, ma funziona. Hiebeler, azzarda una battuta sulle cene da gustare “come gli antichi Germani, seduti intorno a crepitanti falò”. Piussi spiega che quando va a caccia d’inverno si scaldarsi anche con pochi ramoscelli. La notte Toni si sente in colpa, e non chiude occhio mentre i due italiani russano.

All’alba, dopo una magra colazione, si riparte per un muro verticale di una ventina di metri, seguito da una traversata verso destra. Più che dalle difficoltà su roccia, il problema è dato dalle lastre di neve incollate alla parete, che rendono faticoso arrivare agli appigli ma non possono reggere il peso di un uomo.

Piussi, che arrampica da primo dall’inizio alla fine, oltre che con i passaggi di quinto e sesto grado della Solleder deve fare i conti con questi muri di neve che deve demolire un metro dopo l’altro, e che rischiano di ributtarlo nel vuoto.

L’accumulo di neve in un camino costringe Ignazio a un giorno e mezzo di lotta, mentre Toni e Giorgio sono fermi su un terrazzino. La notte, dopo aver lanciato un razzo rosso per tranquillizzare gli amici, Redaelli inizia a cantare, poi si parla di birra e delle cameriere delle birrerie di Monaco.

Il quarto giorno il camino pieno di neve è superato, ma Hiebeler si spaventa quando scopre che due corde di riserva sono cadute nel vuoto. Poi una grotta offre un comodo bivacco, Piussi si esibisce in un bel fuoco, e due cunei bastano a produrre due litri d’acqua calda. L’unico problema è il fumo, denso e catramoso, che provoca un dolore tremendo alle mani martoriate di Ignazio.

Il morale degli alpinisti migliora, ma il ritmo lento dei primi giorni impone di lasciare del materiale. Non sembra esserci ghiaccio, e Hiebeler decide di abbandonare un piccozzino e i ramponi, sperando che in alto le condizioni non cambino. Tocca ancora a Piussi, nonostante una infiammazione agli occhi, superare da capocordata i passaggi più duri saliti da Solleder e Lettenbauer.

La quinta sera, alla fine della diagonale di 120 metri, la tenda del bivacco viene ancorata su un ripiano strettissimo, che non consente di dormire. L’indomani Hiebeler compie trentatré anni, poi occorre affrontare uno degli ostacoli più duri.

Ignazio Piussi lotta un metro dopo l’altro, raggiunge il passaggio della cascata che in questa stagione è sostituito da un muro di neve. La gola che incide la parte alta della parete riserva altri passaggi simili e regala una bella sorpresa, dato che un mucchio di neve alla base di un tetto offre un bivacco in una specie di stanza. I tre restano legati ai chiodi, però, dato che muri e pavimento potrebbero crollare nel vuoto.

Il sonno migliora il morale, ma il settimo giorno porta una grande paura. Piussi affronta l’ennesimo strapiombo di neve. “Ero come una macchina. Sapevo che non c’era più niente da fare, che dopo il terzo bivacco non restava che andare avanti. Avevo un solo pensiero, arrivare in cima e basta”, scriverà.

Mentre Ignazio sale, Toni gli fila la corda assicurato a un solo chiodo. Redaelli, che deve recuperare i chiodi, si appende di peso sulla corda facendo piegare quell’unico ancoraggio verso il basso. Mentre il tedesco osserva spaventato il chiodo, lo strapiombo di neve si stacca, e Piussi precipita nel vuoto.

Redaelli pendola per togliersi dalla traiettoria della neve, Piussi rimbalza all’esterno, Hiebeler aspetta la fine. “Ancora qualche frazione di secondo, poi sarà lo strappo spaventoso!” Invece Ignazio si incastra nel camino, e salva ancora una volta la cordata. “Il grande, il buon Ignazio Piussi è fermo tre metri sopra di me” respira Toni.

Superati la paura e lo strapiombo senza neve (“così va meglio!” esclama Ignazio) occorre traversare in una gola ghiacciata, dove Hiebeler rimpiange i ramponi lasciati più in basso. Poi dal basso arrivano le voci di Sorgato, Bonafede e Menegus, che salgono sfruttando la pulizia di Piussi, e sentono sopra di loro gli amici.

L’ultimo bivacco è su una cornice di neve, senza chiodi a cui assicurarsi e senza spazio per la tenda. Alle 11 dell’ottavo giorno, superate le ultime lunghezze di corda, gli alpinisti raggiungono la cima, e scendono al rifugio Torrani. Preparano una zuppa con del pane raffermo lasciato da qualche escursionista in estate. “Dio che buono che era!” è il commento dell’alpinista friuliano.

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