Marco Bagliani, caduto sul Greuvetta. Il commosso ricordo e le riflessioni del compagno di tante scalate
Forza, esperienza, serenità: la “modalità Bagliani” questa volta non è stata sufficiente. La domanda è sempre la stessa: Perché?
Cosa sia accaduto domenica 14 luglio al Greuvetta ormai è abbastanza chiaro. L’ipotesi più probabile è che sia stato un masso staccatosi da sopra a travolgere Marco e Luca, spazzando via i punti di assicurazione e tranciando la corda che li legava a Luciano, cosa che, miracolosamente, gli ha consentito di non essere trascinato nella caduta fatale con i due compagni.
Credo sia importante puntualizzare questa dinamica per mettere a parte questo incidente rispetto alla discussione che si è innescata nella comunità degli alpinisti sul tema “spit alle soste sì – spit alle soste no”.
La domanda che torno per l’ennesima volta a farmi, però, non è quella sul come sia accaduto tutto ciò o su come si poteva evitarlo, ma la stessa di sempre, quella che mi sono posto già altre volte in situazioni analoghe: perché?
Perché andiamo lì, in quei posti, a fare quelle cose, con la piena consapevolezza che è così, che più o meno grande un pericolo c’è sempre, che questo pericolo lo possiamo in qualche modo mitigare con l’esperienza, la preparazione e la capacità di stare in ascolto, ma anche che non è possibile in alcun modo azzerarlo?
Più volte mi sono risposto che una delle ragioni per cui andiamo lassù è proprio quella: nell’essenza del fare alpinismo c’è anche il confronto con il pericolo, o quanto meno con il suo fantasma: la paura. Un confronto che è ricerca di vita. Per qualcuno la strada per conoscersi, per completarsi e diventare se stessi passa anche attraverso quella montagna che, come diceva un vecchio manifesto del soccorso alpino (con poche parole e un’emblematica immagine in bianco e nero di scalatori nella tempesta), è severa.
Non sono l’unico a pensarla così. E qualcuno questo pensiero lo ha espresso prima di me in modo molto più efficace. Nel suo libro autobiografico dal titolo emblematico Quando il rischio è vita Carlo Mauri raccontava di aver compreso il senso dell’avventura mentre navigava sull’oceano a bordo di una petroliera neozelandese. Nella sua cabina stava appeso un cartello che diceva: “Attento marinaio, ricordati che sei in vita solo fino a che rimani in pericolo”.
Mi paiono ragionamenti sensati, ma questi pensieri, come tutti gli altri, hanno un senso di fronte alla vita. Davanti alla morte, agli amici che se ne sono andati e al dolore di chi resta, sono solo parole vuote.
Non ho risposte ora, non ho un senso da dare e ancora non ho capito come e se questa tragedia che mi ha toccato da vicino cambierà il mio modo di andare in montagna.
Quei sorrisi sull’Eiger
Penso soprattutto a Marco, con cui avevo fatto diverse salite e che per me era un caro amico ancor prima che un compagno di cordata. Ci penso e sento tanta tristezza, ma non c’è solo questo.
Un po’ me ne vergogno, ma, in mezzo a tutta questa oscurità, non riesco a non far baluginare un punto di luce e di felicità. È il sorriso di Marco. Sono terribilmente triste sapendo che non lo rivedrò più, ma allo stesso tempo quel sorriso è ancora qui, è con me. È parte di me.
Dalla scorsa domenica ogni giorno mi passa per la testa, con un brivido e un senso di vertigine e disgusto, l’immagine di ciò che devono essere stati per Marco, Luca e Luciano quegli attimi terribili. Poi, senza che ci possa fare nulla, mi ritrovo nella notte del Mercantour, nell’ultima scalata fatta assieme a Marco, conclusasi con la discesa in un canalone che non era quello giusto e che sembrava non dovesse finire mai: ad ogni ultima doppia ne seguiva assurdamente un’altra. Non era una situazione particolarmente delicata, ma cominciavo a sentire il peso della giornata. La frustrazione e la fretta di tornare al rifugio stavano annebbiando la mia capacità di prendere le decisioni più appropriate. Poi sentii Marco pronunciare sorridendo la fatidica frase: “Più buio di così non può diventare, ora possiamo anche prendercela con calma!”. Era entrato in modalità Bagliani. Sapevo che, come già era accaduto altre volte, era arrivato il momento di affidare a lui il ruolo di leader della cordata, con le ridotte ingranate ci avrebbe portato a casa nel modo più sicuro possibile.
Da lì con un salto sono ad un’altra notte e ad un’alba radiosa, trascorse condividendo con lui la comodità di una jacuzzi di ghiaccio: una vasca da bagno scavata nella neve sul filo della cresta che conduce alla vetta dell’Eiger. Il più bel bivacco della mia vita!
L’Orco dell’Oberland aveva mostrato per noi il suo volto più mansueto. Eravamo passati dalla Nord in una sorta di stato di grazia. La montagna era in condizioni perfette: nemmeno una pietruzza era venuta giù in quei due giorni. Con l’altro accademico Gianluca Cavalli eravamo saliti con il nostro ritmo da cordata bicentenaria (sommando le età di tutti e tre sforavamo abbondantemente quota 150 anni…), ma senza timori. Il nostro era stato un viaggio incantato nello stupore e nella bellezza. Ora eravamo lì nella nostra jacuzzi, senza una nube in cielo, senza un alito di vento. Eravamo felici. Sorridevamo come deficienti, non per la “conquista”, ma per la gioia di essere lì, di essere noi, della nostra amicizia scoperta e consolidata attraverso la montagna.
L’ho catturato quel sorriso di Marco, in una foto sbilenca di quelle che faccio io, ma soprattutto nel mio cuore. Nonostante tutto il buio di questi giorni, è lì e fa luce. È il regalo che mi ha lasciato. In questi giorni, in queste ore, ancora non ho capito come lo utilizzerò, ma so che qualcosa devo farne, glielo devo.
Sicuramente arriveranno altre notti, in parete o in uno degli infiniti luoghi e tempi pericolosi che l’esistenza riserva a tutti, spero che allora saprò riaccenderla questa luce. Spero che qualcosa di quello che Marco mi ha insegnato con la sua amicizia lo saprò mettere a frutto. Spero che saprò ingranare le ridotte e mettermi in modalità Bagliani, per riportare a casa me e i miei compagni di montagna o di vita.
Cercherò di fare del mio meglio, ma so anche che poi ci vuole un po’ di fortuna. Perché all’origine di tutto c’è uno sbaglio, quello che commettiamo tutti (alpinisti e non), quello che non possiamo non commettere. Quello di svegliarci ogni mattina e di incamminarci sulla nostra pericolosa strada.
Tutto bene, tutto giusto? Non sono alpinista, ma ero amico di Marco e oltre alla Fisica condividevo con lui la passione per la… granita siciliana presso pasticceria Torre in corso Regio Parco a Torino, attività golosa e gratificante, ma assai meno pericolosa ed eroica!
Nel tuo articolo richiami le solite pulsioni primitive dello sport estremo, presenti peraltro non solo nell’alpinismo: passione/sfida/confronto. Cose scritte, sentite e risentite tante volte, nutrimento, linfa, motivazione per tante imprese simili.
Va tutto bene quando si torna a casa e si raccontano queste fantastiche esperienze, ma quando purtroppo avviene il maledetto imprevisto si rimette in discussione, sottolineo giustamente, il tutto.
Ne valeva, ne vale SEMPRE la pena? Per Marco si, conoscendolo; lo stesso vale per tutti gli appassionati come lui.
Ma per gli altri che rimangono e che lo piangono? Ognuno tenga per sé la risposta, ma mi raccomando ci rifletta sopra.
Senza dubbio i suoi allievi (università facoltà economia e CAI sezione alpinismo) porteranno avanti le sue idee e ideali. Marco vive con tutti questi, per tutti questi e sarà di ispirazione per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e hanno apprezzato le sue idee.
Tuttavia Marco lascia anche un enorme vuoto ed io suo amico, permettetemi di scrivere, sono un pochino arrabbiato con lui e molto, ma molto di più con quella maledetta parete.