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Il miracolo di Finale Ligure

Mare. Arrampicata. Sentieri. Biciclette. E ancora mare. La storia del Finalese e delle sue tante vocazioni è unica. Per chi l’ha vissuta in diretta, negli ultimi quaranta o cinquant’anni, è stata una storia incredibile. Qualcosa che gli economisti o i sociologi definirebbero una perfetta case history nei modelli di sviluppo turistico, e che noi, testimoni in presa diretta, chiamiamo miracolo.

Perché è un miracolo che una classica “stazione climatica”, un po’ demodé, popolata di anziani e bambini e (solo per un mese all’anno) di un’eterogenea folla di villeggianti, sia stata in grado di abbandonare il modello unico balneare (spiaggia/discoteca/pizzeria) e lasciarsi conquistare da qualcosa di assolutamente più antico: la propria wilderness. E allo stesso tempo più moderno e “giusto”.

Un numero intero su Finale Ligure? Sei matto?” Quando ho deciso di dedicare una monografia di Meridiani Montagne al Finalese, così mi avvertiva qualcuno, aggiungendo: “Ma siamo al mare!”. “Appunto, siamo al mare” rispondevo, spiegando che il mare, anzi le sue spiagge, non sono altro che l’ultimo stadio delle montagne. Mi confortava il pensiero di un’alpinista doc come Silvia Metzeltin, geologa, che per me aveva scritto il primo articolo della monografia: “Le montagne finiscono in spiaggia: ultima loro tappa, geologicamente parlando, prima di scivolare nel mare, da dove forse riemergeranno di nuovo come montagne tra centinaia di milioni di anni… Anche chi arriva nel Finalese con predilezione per l’entroterra montagnoso, almeno una scappatina al mare se la concede. E qui, camminando sulla spiaggia, gli viene offerta una integrazione insolita con la sua passione per la montagna. Provare per credere”.

Proprio così, provare per credere. E ci hanno provato, e creduto, i primi alpinisti (appena dei ragazzi) che sul finire degli anni Sessanta avevano scoperto dell’esistenza delle falesie, e si erano armati di machete, prima ancora che di corde e chiodi, per aprirsi un varco nella fittissima macchia mediterranea e arrivare ai piedi delle pareti. Ho chiesto di raccontare le loro vicende a uno storico illustre dell’alpinismo, Enrico Camanni: “Per tutti gli anni Settanta la saga dell’arrampicata finalese ha avuto un sapore pionieristico; le rocce dell’altipiano erano terra d’avventura geografica, oltre che alpinistica, e nonostante la vicinanza all’Aurelia e agli stabilimenti balneari, sembrava di esplorare un pezzo di Amazzonia nel cuore della modernità. Ovunque, camminando e scalando, s’incontravano i segni di vecchie civiltà, con tanto di coppelle, croci primitive, grotte, spelonche, altari e villaggi rupestri sommersi dalla macchia, ma per gli arrampicatori la pietra del Finale era una continua pazzesca sorpresa, e la domanda era sempre la stessa: «Come diavolo abbiamo fatto a non accorgercene prima?» Se n’erano accorti i popoli preistorici e i popoli contadini, ma non quello degli alpinisti. Sì, perché la roccia è ovunque sull’altipiano, il calcare fa parte del paesaggio… Finale è le sue falesie. Era ovvio che prima o poi gli scalatori andassero a mettere il naso. La data era scritta: maggio 1968! Proprio nel mese cruciale della contestazione, un gruppetto di arrampicatori genovesi inventa la prima via sul siluro di Rocca di Corno: la Titomanlio, dal cognome del primo salitore. Roberto sale con i terribili fratelli Eugenio e Gian Luigi Vaccari, che in cima esclamano entusiasti: «Ma qui c’è da arrampicare per una vita!»

Dalle falesie di Finale sono passati negli anni alcuni dei più grandi alpinisti e arrampicatori italiani, da Gianni Cacagno a Andrea Gallo (che su Meridiani Montagne firma uno splendido portfolio fotografico), fino a Alessandro Gogna, autore all’epoca di numerose vie (con il suo “circo” di giovani promesse) e autore per la nostra rivista di un appassionato articolo di memorie finalesi: “Fu un periodo goliardico, finalmente eravamo riusciti a portare allegria, leggerezza, clamore ed esagerazioni in un ambiente, quello “alpinistico” dove ogni eccesso era messo con rigore all’indice. Guarda caso cominciavano anche ad arrampicare parecchie ragazze…

Da allora, sulle falesie del Finalese sono state aperte oltre 4000 vie, i sentieri si sono moltiplicati per centinaia di chilometri e non c’è più bisogno di machete per andare alla scoperta dell’entroterra. C’è, forse, un po’ meno wilderness, i luoghi sono più addomesticati, ma la loro bellezza rimane intatta. A seguito degli arrampicatori, a Finale sono arrivati gli escursionisti (a loro dedichiamo una serie di splendidi itinerari, tra testimonianze archeologiche, chiese e castelli, dagli altopiani alle creste delle Alpi Liguri), e il popolo sempre più numeroso dei bikers. La vecchia stazione climatica si è destagionalizzata. Si è trasformata in capitale dell’outdoor e vive gioiosamente per 12 mesi all’anno. Qualcuno di noi alpinisti, infine, è tornato perfino al mare: c’è chi pratica il triathlon, nuotando, correndo e pedalando tra Finalmarina e Varigotti; e c’è chi si contenta di fermarsi contemplazione sulla spiaggia, lo sguardo rivolto alle falesie, pensando a quanto è bello, anche solo per una frazione di tempo, poter far parte di questo ciclo geologico.

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2 Commenti

  1. L’unica pecca che ritrovo sempre in questi 50 anni di frequentazione molto saltuaria è rappresentata dai liguri che ancora pensano solo a sfruttare anche questa forma di turismo, senza offrire quasi nulla, anzi periodicamente creando ostacoli e disincentivando con furti e danni.

    A me comunque piace andarci, sopratutto per ritrovare degli amici, ma anche perché lo scalare è diventato in gran parte molto “piacioso”, mentre negli anni 70 si scalava sì con il mangiadischi appeso all’imbrago, ma bisognava essere molto più sgamati dappertutto 🙂

    Per me però è più comodo andare ad Arco dove ci sono tante belle vie “piaciose” anche molto lunghe.
    La roccia bucosa di Finale, checché se ne dica, fa molto bene alle dita 🙂

  2. Un articolo bellissimo, che spiega molto bene come sia possibile “sfruttare” il territorio senza distruggerlo; è una realtà che si potrebbe non solo paragonare, ad esempio, alla celebre val di Mello – a dimostrazione del fatto che non si tratta di una eccezione – ma anche accostare a una possibile altra wilderness a vocazione turistica ecocompatibile, ora però gravemente minacciata: il vallone delle Cime Bianche, a ridosso del Monte Rosa in val d’ Ayas; si vuole devastare questo luogo con l’ ennesima funivia.

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