Gente di montagna

Il sesto grado ieri e oggi. Ne parlano Cazzanelli, De Zaiacomo, Grasso e Ripamonti

Un bell’incontro a Trento sul concetto di limite nell’alpinismo. Dopo la bella relazione di Serafino Ripamonti, il racconto delle esperienze di Mirco Grasso, Matteo De Zaiacomo e François Cazzanelli

“Cos’è il sesto grado?” “Cosa rimane oggi della storia del sesto grado?” Oppure, ancora meglio, “cosa, nell’alpinismo di oggi, prosegue la tradizione del sesto grado?”. Può essere sintetizzato usando una a scelta di queste frasi, Enigma VI grado” uno dei dibattiti più interessanti dell’edizione 2025 del Festival della Montagna di Trento. 

Un incontro che ha visto salire sul palco, nell’austero salone della Filarmonica, il giornalista Serafino Ripamonti (con un ottimo curriculum in parete anche lui) e tre protagonisti dell’alpinismo italiano di oggi. Il veneto Mirco Grasso, il lombardo Matteo De Zaiacomo, presidente dei Ragni di Lecco, e il valdostano François Cazzanelli.

E’ lecito iniziare con i complimenti a un collega che scrive per questa testata? Sperò di sì, perché l’introduzione di Serafino Ripamonti è stata semplicemente perfetta. Chiara, ricca di informazioni, completa. E breve, il che non guasta in un mondo dove gli interventi sulla storia sono spesso troppo lunghi, e quindi noiosi. Brevi, e particolarmente efficaci, anche gli interventi dei tre ospiti, che hanno mostrato aspetti diversi dell’alpinismo estremo di oggi. 

Ma torniamo all’amico Serafino e al suo intervento. Ha iniziato citando Georges Livanos e Paul Preuss, protagonista dell’alpinismo ispirato al “di meno, di più”, le cui imprese avevano un valore maggiore proprio a causa della rinuncia ai pochi mezzi artificiali (i rozzi e pesanti chiodi dell’epoca) del tempo. “Un simbolo eterno dell’alpinismo nella sua forma più pura”, lo ha definito il relatore. 

Poi l’attenzione di Ripamonti e del pubblico si è concentrata su Willo Welzenbach e sulla sua scala in sei gradi dove l’ultimo, il mitico VI grado, era identificato come “il limite delle possibilità umane”, ed è stato subito attribuito alla via tracciata da Emil Solleder e Gustav Lettenbauer sulla Civetta. Poi le salite di alto livello si sono moltiplicate, sulle Dolomiti e non solo. 

Nel dopoguerra, grazie a una nuova generazione di alpinisti, si è capito che la definizione di Welzembach non aveva senso, perché gli uomini puntano a fare sempre di più. A mettere in luce questa contraddizione sono stati gli eccessi dell’arrampicata artificiale, spesso e a torto definiti “sesto grado” dalla stampa. E gli exploit di una nuova generazione di campioni, a iniziare dal giovane altoatesino Reinhold Messner. 

In L’assassinio dell’impossibile, un articolo uscito nel 1968 sulla Rivista Mensile del CAI, l’allora ventiquattrenne alpinista di Funes si è scagliato contro la profanazione delle grandi pareti a colpi di chiodi a pressione, rivendica il valore dell’arrampicata libera. “Si fora sempre di più e si arrampica sempre di meno. L’impossibile è sgominato, il drago è morto”. 

La conclusione di Messner è famosa. “Io mi preoccupo per il drago ucciso: dobbiamo fare qualcosa prima che l’impossibile venga del tutto sotterrato. Salviamo dunque il drago. E in avvenire, proseguiamo sulla via indicataci dagli uomini del passato. Io sono convinto che sia ancora quella giusta!” Il rilancio dell’arrampicata libera, e l’apertura della scala verso l’alto, hanno chiuso di fatto la storia del sesto grado.


Le opinioni dei tre campioni

Cos’è il “sesto grado” nell’alpinismo di oggi? Il primo a rispondere a questa domanda solo in apparenza semplice è stato Mirco Grasso, 32 anni, nato nella pianura del Veneto e autore di ascensioni importanti sulle Dolomiti, in Patagonia, a Yosemite, in Groenlandia e nel deserto di Wadi Rum, in Giordania. Un bel video lo ha mostrato impegnato in alcuni di questi luoghi.

Per spiegare il concetto di limite, Mirco ha citato la matematica, che ben conosce perché di mestiere è informatico. “La perfezione in parete? Medusa, la via che Maurizio Giordani ha aperto sulla Sud della Marmolada a vista e senza corda. Una via che voglio ripetere insieme a Maurizio, appena sarà possibile”. 

Dopo Grasso, la parola è passata a Matteo De Zaiacomo detto Giga, 32 anni anche lui, salito sul palco di Trento con un cappello da basket, due stampelle a causa di un incidente a una caviglia (dovrebbe essere una cosa breve) e il celeberrimo maglione rosso dei Ragni di Lecco, uno dei sodalizi più gloriosi dell’alpinismo italiano, di cui oggi è il presidente. 

Matteo ha regalato al pubblico un video che lo mostra sulla vetta del Cerro Torre, la montagna più elegante e famosa che ha salito. Per spiegare il limite nell’alpinismo di oggi, ha parlato della sua storia personale. “Dieci anni fa lavoravo come idraulico, vuoi mettere?” “Rispetto allo sport tradizionale siamo dei privilegiati, non abbiamo un arbitro o una giuria, noi andiamo e scaliamo. E’ perfetto”. 

Il terzo e ultimo (ma non in una classifica di exploit!) alpinista del gruppetto è stato François Cazzanelli, 35 anni, valdostano di Valtournenche, guida e figlio di guida del Cervino. Negli ultimi anni ha compiuto grandi ascensioni in Himalaya e sulle montagne di casa. Il suo video, dedicato a una via nuova tracciata con Leo Gheza sulla parete Nord del Breithorn, mostra il suo fiuto nella ricerca di nuove linee su pareti spesso considerate “sature”. 

“A Trento mi sento come un bambino a Gardaland, ci sono tante persone e tante storie da ascoltare” ha confessato François. “Ho portato nel mondo quello che ho imparato sulla mia montagna di casa, il Cervino” ha proseguito. Rispondendo alle domande di Serafino Ripamonti, Cazzanelli ha detto: “non posso criticare gli Sherpa che attrezzano gli “ottomila” per portarci i clienti, perché noi in Valle d’Aosta lo abbiamo fatto da un secolo e mezzo”. Le code di turisti-alpinisti sulle normali attrezzate, però, non tolgono spazio alla ricerca. “Sugli “ottomila” ci sono ancora tante belle linee da salire”. E se lo dice François c’è da credergli.      

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