Alpinismo

Matteo De Zaiacomo racconta la salita sullo Sckem Braq. La nuova via battezzata “Azzardo estremo”

Il presidente dei Ragni di Lecco ha scalato con Chiara Gusmeroli una parete di 900 metri della Namga Valley, in Pakistan. Tre settimane all’insegna delle sorprese e dei cambi di programma

L’hanno soprannominata la Yosemite del Pakistan per via delle splendide pareti di granito di cui è costellata. La Nangma Valley è un’area del Karakorum relativamente facile da raggiungere, ma dove ancora si trovano infinite opportunità per quanti vogliano dedicarsi ad un alpinismo tecnico su roccia, all’insegna dell’esplorazione e dell’avventura.

Proprio lì, nello scorso mese di agosto, si sono diretti Matteo De Zaiacomo, presidente dei Ragni di Lecco, e la giovane scalatrice Chiara Gusmeroli riuscendo a salire lo Sckem Braq, un’affascinante cima di 5300 metri, probabilmente ancora inviolata.

“Azzardo Estremo” è il nome della loro nuova via, un itinerario di 900 metri di dislivello, che ha richiesto tutta la loro abilità tecnica (le difficoltà arrivano fino al 7a in libera e all’A3 in artificiale) e li ha messi di fronte a situazioni inattese dove anche la componente psicologica ha giocato un ruolo essenziale.

Ecco il racconto della spedizione nelle parole dello stesso De Zaiacomo.

Matteo, da dove nasce l’idea di questa spedizione?

“Le pareti della Nangma Valley ce le avevo in testa da tanti anni, sin da quando avevo visto per la prima volta le foto dell’Amin Braq: un missile di roccia così, mi ero subito detto, prima o poi lo devo vedere di persona! Era uno di quei desideri latenti che rimangono nella testa gli alpinisti per un po’ di tempo e poi magari a un certo punto saltano fuori… L’occasione si è presentata quest’estate quando con Chiara, dopo la bella esperienza in Patagonia, abbiamo pensato di fare un altro viaggio assieme. Le mete possibili erano tante, ma il tempo poco: solo tre settimane. Così dal cassetto è saltata fuori la Nangma Valley, un posto decisamente selvaggio, ma con una logistica relativamente semplice e avvicinamenti brevi per lo standard del Karakorum: da Skardu con cinque ore di Jeep e cinque di cammino arrivi al campo base, a 4000 metri, poi da lì gli avvicinamenti sono ridicoli: se non punti al K6, in un’ora sei già ai piedi di qualche parete”.

Come esperienza come è stata? Già il nome che avete dato alla via fa capire tanto…

“Cominciamo dall’anticamera dell’avventura, ovvero l’organizzazione, l’arrivo in una città così particolare come Skardu, i portatori, le tempistiche, il viaggio con i fuoristrada, ecc. Queste cose le ho vissute con lo sguardo di chi ha già fatto un po’ di spedizioni, ma è stato bello rivivere tutto attraverso gli occhi di Chiara, per la quale ogni cosa era nuova e affascinante. Una volta al campo base è cominciata la spedizione vera e propria. Il posto è bellissimo: molto verde, alpeggi, mucche al pascolo e torrenti tutto attorno. Come ho detto, le pareti sono davvero a uno sputo, quindi abbiamo dedicato i primi giorni a girare per la valle, per vederle più da vicino. Qui sono cominciate le complicazioni. L’Amin Braq si è rivelato un obiettivo fuori portata per noi: l’avvicinamento era un pochino più complicato e avrebbe richiesto un campo avanzato, poi non ce la sentivamo di affrontare una parete così difficile e così ripida in due. L’altro obiettivo che avevamo preso in considerazione era lo Shingu Charpa. Lì c’è lo spigolo che una spedizione ucraina aveva dichiarato di aver salito integralmente in stile alpino e per questo aveva ricevuto la candidatura al Piolet d’Or, ma poi si era scoperto che la salita non era stata completa e gli stessi alpinisti avevano rinunciato alla candidatura. È una linea molto bella e l’attacco è a soli venti minuti dal campo base. Solo che, fin dal primo giorno, ci siamo accorti che dalla parete est, a fianco dello spigolo, almeno due o tre volte al giorno venivano giù delle belle scariche di sassi. L’abbiamo preso come un segnale della montagna che ci invitava a stare alla larga…”.

Scartati i due obiettivi con cui eravate partiti quale è stata la strategia alternativa?

“Diciamo che non c’è mancata la possibilità di scegliere, visto che attorno c’è davvero una miriade di pareti, una più bella dell’altra. Risalendo la valle siamo stati colpiti dal pilastro che si innalza a un paio d’ore di cammino dal campo base, proprio nel punto dove la valle si divide in due rami. Un muro fantastico di pura roccia, come suggerisce il suo stesso nome. Sckem Braq, infatti, nella lingua locale significa “parete secca”. Non sapevamo se fosse già stata salita, però sembrava davvero bella! C’era questo zoccolo iniziale, dove la linea era sicuramente un po’ da cercare fino ad una cengia, ma sopra cominciava un muro fantastico, verticalissimo e liscio, di almeno 200 metri che faceva da headwall, e più sopra ancora parecchio da scalare”.

A giudicare dalla foto della parete, un muro così verticale e compatto come quello della headwall dello Sckem Braq si sarebbe anche potuto rivelare inscalabile con il poco tempo a disposizione e vista la vostra scelta di non portare con voi spit e perforatore. In base a cosa avete preso la decisione di affrontarlo?

“In realtà ci siamo fatti aiutare dalla tecnologia: abbiamo mandato su il drone e abbiamo scattato un po’ di foto ravvicinate, dalle quali si capiva che c’era una linea di fessure che ci avrebbe potuto consentire di passare. Così abbiamo attaccato. Il primo giorno siamo arrivati fino alla cengia, dove abbiamo dormito. Poi abbiamo iniziato a scalare su questo muro e in effetti la fessura si lasciava salire. Era proprio larga, da proteggere con friend del 5 e del 6 e c’erano tiri tutti da friend del 4: partivi e per 30 metri te lo tiravi dietro senza riuscire a mettere niente altro… Arrivati ad un certo punto le fessure hanno cominciato a stringersi e ad essere intasate d’erba. Un disastro! Ci voleva un sacco di tempo per pulirle, mettere i friend e salire in qualche modo. Vabbè, ci siamo detti, è andata così; gran giornata di scalata, orecchie basse, portiamo giù tutto e torniamo indietro. La settimana prossima ci proviamo con lo Shingu Charpa. Solo che, proprio mentre tornavamo al base, abbiamo visto una mega frana venire giù dallo Shingu, proprio sulla linea che avevamo immaginato di salire: no, meglio che lì non ci andiamo…”.

Quindi avete puntato di nuovo sullo Sckem Braq, riportando su tutto il materiale?

“Ci abbiamo presi un paio di giorni di riposo, ma si stava avvicinando la fine della nostra spedizione: avevamo sei giorni ancora a disposizione e ne davano uno di brutto tempo a metà. Abbiamo deciso di salire e stare sulla cengia con la tenda, rimanendo lì nel giorno di maltempo, per vedere se si riusciva a concludere la salita in un unico tentativo. Il primo giorno siamo arrivati alla cengia e abbiamo installato il campo. Il giorno dopo abbiamo scalato i tiri che avevamo già fatto, sistemando un po’ le soste e lasciando fissata una corda sul primo tiro dopo la cengia, visto che era molto bagnato. Mentre facevamo questi lavori, abbiamo un rumore tremendo: praticamente, sotto di noi, lo zoccolo stava crollando!”.

La frana era proprio sulla linea che avevate percorso il giorno prima, vi sarete presi un bello spavento!

“Certo, però abbiamo detto: siamo qua in cengia tranquilli, tutto a posto, ci pensiamo quando scendiamo. Il giorno successivo pioveva e quindi siamo stati in cengia a riposare. Poi, il quarto giorno, abbiamo ripercorso ancora una volta i tiri già fatti, fino a dove iniziavano le fessure intasate d’erba. C’eravamo portati una piccozzina per pulirle e abbiamo cominciato un lavoro a metà strada tra libera, artificiale e giardinaggio… Un lavoro delicato, perché non sempre riuscivi a proteggerti bene. Dopo qualche tiro siamo arrivati ad un punto dove la linea si perdeva e c’erano soltanto fessurine superficiali: un tiro di artif abbastanza cattivo, con chiodini a lama battuti per metà, totem che lavoravano con solo due camme, pendoli per andare a prendere altre mezze fessure, il tutto su lame un po’ expanding. Della serie: cinque o sei passì così, sull’ultimo gradino della staffa, sigaretta antistress e poi via di nuovo… Ci sono volute tre ore e mezza per venirne a capo, infine, con un altro paio di tiri, siamo stati fuori dalla parte più ripida della headwall”.

A quel punto però mancava ancora parecchio per arrivare in cima, giusto?

“Esatto, almeno 250 metri. Però era tardi, allora ci siamo scavati un buco su una cengia dove c’era un po’ di terra, giusto per poter stare almeno seduti. Il mattino dopo, verso le 9, un po’ a tiri e un po’ in conserva, abbiamo raggiunto la vetta e abbiamo iniziato la discesa in doppia. Quando siamo arrivati giù alla cengia, ci siamo accorti che c’era stata un’altra frana, questa volta sulla parte superiore della parete. La nostra tenda era distrutta, completamente bombardata: ogni 20 centimetri c’era il buco di un sasso! A quel punto, almeno per me, lo stress è arrivato al limite. Avevamo fatto diversi giorni di scalata con tiri difficili e pericolosi, una discesa in doppia con tante soste tutte da inventare e, arrivato al punto dove puoi decomprimere trovi la tenda distrutta: in che posto di merda siamo andati a cacciarci, pensavo! Da lì, scendendo, ero in uno stato di agitazione totale, mi faceva paura tutto, anche calarmi da un cordino passato attorno a uno spuntone gigante. Siamo scappati via, come fuori dalla bocca di un pescecane e siamo corsi al campo base dove i cuochi ci hanno accolto con la Coca Cola e la torta per festeggiare la cima. Lì abbiamo capito che ce l’avevamo davvero fatta!”.

Alla luce di tutto questo il nome che avete che avete dato alla via (Azzardo Estremo) è sicuramente appropriato. Ma è un azzardo che è andato oltre è il tollerabile o in qualche modo siete riusciti a mantenere un controllo?

“Sicuramente ci siamo trovati di fronte a situazioni di pericolo che non avevamo messo in conto. Quando ho scalato la ovest del Bhagirathi, avevamo visto la frana cadere proprio sulla linea di salita e sapevamo i rischi che ci stavamo prendendo. Lo stesso sulla est del Torre: sapevamo che faceva caldo e che stavamo azzardando perché il pericolo di caduta dei funghi di ghiaccio era alto. C’erano un sentimento e una predisposizione diversi. Qui, non avendo visto in precedenza frane sulla parete, eravamo beatamente inconsci. È chiaro che avevamo accettato il pericolo della scalata, ma eravamo anche convinti che quello era il posto più sicuro della valle. Prima di attaccare avevo scritto un messaggio a mio padre dicendo: lo Shingu Charpa crolla troppo, proviamo quest’altra parete che sembra la più mansueta. Invece…”.

Alla fine, quindi, come consideri questa apertura? Una bella via? Una via da consigliare solo al peggior nemico?

“Per me questa salita è stata una soddisfazione enorme. Aver superato questo muro che si rivelava di tiro in tiro, sempre più bello e anche difficile e aver scalato dei tiri di 7a in un ambiente comunque isolato e selvaggio come questo ha voluto dire esprimermi al limite delle mie capacità. Nonostante tutto è stata un’arrampicata entusiasmante. È una via di cui vado fiero. Dopo la est del Torre la considero la salita che mi ha richiesto di più. Quella headwall lì, poi, se fosse qua da noi, estrapolata dal contesto, sarebbe probabilmente una delle pareti più belle delle Alpi e la via che abbiamo tracciato sarebbe un gioiello. Insomma, se fosse qui da noi consiglierei sicuramente di andare a ripeterla, contestualizzata però nell’ambiente del Karakorum diventa una di quelle salite che fai una volta nella vita. Se anche qualcuno dovesse andare nella Nangma Valley, sarebbe sicuramente più sensato che trovasse il suo progetto, la sua linea, che neanche andare a ripetere questa. Forse però ho presentato male questa valle, descrivendola come un posto dove crolla tutto… In realtà è un luogo fantastico, soprattutto per chi vuole vivere una dimensione avventurosa ed esplorativa pur avendo poco tempo. Partendo dall’Italia, in tre giorni sei a campo base con tante cime ancora inviolate tutto attorno. Un posto dove puoi avere la soddisfazione di salire qualcosa di tuo e vivere la tua personale avventura”.

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