Paul Preuss, il cavaliere senza macchia
Il 3 ottobre del 1913 cadeva sullo spigolo del Mandlkogel il grandissimo scalatore austriaco, protagonista di grandi scalate by fair means nella maggior parte dei casi in solitaria. Il rifiuto del chiodo come mezzo di elevazione morale
“Non sarò io a negare che certi scalatori moderni subiscano entro certi limiti il fascino del rischio. Mi sembra però che il pensiero: «se cado, resto appeso a tre metri di corda» abbia moralmente meno valore dell’altro: «una caduta e sei morto!»”.
Paul Preuss
Paul Preuss è il cavaliere senza macchia, il simbolo indiscusso e indiscutibile dell’ideale realizzato dell’alpinismo “by fair means”, con mezzi leali. La sua totale dedizione all’arrampicata libera (spesso solitaria) e il suo rifiuto categorico dell’utilizzo del chiodo come mezzo per vincere le difficoltà e garantire la sicurezza del primo di cordata ne hanno fatto un punto di riferimento etico che ha attraversato le generazioni per arrivare fino ai giorni nostri.
Il suo capolavoro, la via sulla parete Est del Campanile Basso di Brenta, salita (e discesa) in libera, a vista e senza corda, è un esempio impeccabile di aderenza fra l’ideale e la pratica che non si può esitare a definire come “l’ascensione perfetta”.
La vita, l’alpinismo e il mito
Paul Preuss nasce il 19 agosto del 1886 ad Altaussee, un borgo montano della regione della Stiria, in Austria, dominato dalla severa parete della Trisselwand.
Quello che lo attende è un futuro da assoluto fuoriclasse dell’alpinismo, anche se gli anni della sua prima infanzia sembrano non svelare nulla di tutto ciò: il piccolo Paul ha un fisico gracile, minato dalla malattia, che spesso lo costringe a letto o sulla sedia a rotelle. A questo destino lui reagisce dedicandosi con inflessibile tenacia allo sport. Le montagne diventano la sua medicina, la palestra della sua rinascita: diviene sciatore, alpinista, rocciatore e, a soli 11 anni, può già vantare centinaia di ascensioni.
Le poche fotografie che di lui ci restano, anche in età adulta, restituiscono una figura gracile e dimessa, non certo il profilo dell’Achille dell’alpinismo che ci si aspetterebbe. Anche di questo contrasto si nutrirà il mito di Preuss: è il simbolo dell’epoca “eroica” della scalata che si sta aprendo; è la volontà che piega la materia bruta. Spiritus omnia vincit…
Per comprendere a pieno la sua importanza nell’immaginario degli scalatori, bisogna fare il punto sul contesto storico dell’alpinismo della sua epoca, in particolare di quello dolomitico.
Fra gli ultimi anni dell’800 e i primi del 900, arrampicatori del calibro di Georg Winkler avevano sfondato la barriera del vuoto e della verticale. Con tecniche e mezzi che è eufemistico definire rudimentali, questi pionieri avevano cominciato a superare le pareti più repulsive, oltrepassando i limiti del III e del IV grado (che allora non erano ancora stati codificati dalla scala Wezembach).
Nel volgere di poche stagioni, poi, l’abilità e l’ambizione avevano condotto gli scalatori più forti ad affrontare itinerari sempre più difficili e a mettere a punto tecniche e attrezzature per garantirsi un minimo di sicurezza laddove le pareti si facevano più compatte. In molti avevano cominciato a introdurre l’uso di rudimentali chiodi da martellare nelle fessure, usati per farvi passare la corda o addirittura come appiglio, mentre altri talenti emergenti come Hans Dülfer e Tita Piaz avevano messo a punto e cominciato ad introdurre l’uso della corda doppia, che rendeva molto più veloce e sicura la discesa o un’eventuale ritirata.
Insomma, l’alpinismo su roccia si era avviato verso una straordinaria e inarrestabile evoluzione della difficoltà, al prezzo però di una “deriva tecnologica” cui Preuss oppone un rifiuto radicale e intransigente.
Per lui non c’è vera evoluzione se non quella che passa attraverso il vaglio di un rapporto leale e ad armi pari fra l’uomo e la montagna. Stando alla sua stessa testimonianza, nella sua immensa attività (un conteggio approssimativo ci dice che aveva all’attivo 1200 ascensioni di cui almeno 300 solitarie e 150 prime salite), fa ricorso solo una volta all’uso del chiodo. Accade durante il tentativo di apertura della via diretta alla Trisselwand e, anche in questo caso, il mezzo artificiale non serve per garantire la sua sicurezza, ma quella del secondo di cordata. L’esposizione totale al pericolo era infatti un principio che Preuss faceva valere per sé, senza pretendere altrettanto dai compagni. Per questo motivo aveva anche ideato uno speciale nodo, che si sarebbe sciolto nel caso fosse precipitato, senza coinvolgere nella caduta il suo secondo…
Preuss però non è solo uomo d’azione. La sua formazione culturale (si laurea in filosofia e è docente di cattedra presso l’Università di Monaco) lo porta a meditare profondamente sulle sue convinzioni e ad esporre i principi della sua etica in lucide teorizzazioni. Scrive, infatti: “Oggi le montagne sono “vinte” con l’aiuto della corda e dei chiodi. Un po’ dappertutto si possono vedere persone penzolare da pareti completamente lisce, intere montagne vengono scalate con manovre di corda. Eppure l’esperienza insegna che molti di questi passaggi possono essere superati in arrampicata libera; in caso contrario, tanto vale non intestardirsi in insulsi tentativi.
Anche il chiodo da roccia va considerato come un espediente di fortuna e non come un mezzo per conquistare le montagne. Non sarò io a negare che certi scalatori moderni subiscano entro certi limiti il fascino del rischio. Mi sembra però che il pensiero: «se cado, resto appeso a tre metri di corda» abbia moralmente meno valore dell’altro: «una caduta e sei morto!»”.
C’è dunque per lui un elemento di elevazione morale nell’azione alpinistica, che va oltre il semplice atto della conquista di una parete o il superamento di una certa difficoltà. La rinuncia ai mezzi tecnologici e la scalata solitaria sono condizioni essenziali, senza le quali l’alpinismo perde il suo senso più profondo.
Attenzione però, questo anelito non è da confondere con una ricerca fine a se stessa del pericolo e del confronto con la morte, come avviene ad esempio per il contemporaneo Eugen Guido Lammer, nei cui scritti spesso emergono suggestioni di un malinterpretato superomismo nietzschiano.
Preuss ha ben chiaro il valore della vita e il senso del limite e, ancora una volta, lo mette nero su bianco, enunciando le famose 6 leggi:
- Non basta essere all’altezza delle difficoltà che si affrontano, bisogna essere superiori a esse;
- La misura delle difficoltà che uno scalatore può affrontare in discesa, con sicura e piena coscienza delle proprie capacità, deve rappresentare l’estremo limite delle difficoltà che egli affronta in salita;
- L’impiego di mezzi artificiali trova giustificazione solo in caso di pericolo incombente;
- Il chiodo da roccia deve essere un rimedio di emergenza e non il fondamento del proprio sistema di arrampicata;
- La corda può essere una facilitazione, ma non il mezzo indispensabile per effettuare una scalata;
- Tra i massimi principi vi è quello della sicurezza. Non però la sicurezza che risolve forzosamente con mezzi artificiali le incertezze di stile, bensì la sicurezza fondamentale che ciascun alpinista deve conquistarsi con una corretta valutazione delle proprie capacità.
Ciò che ipotizza nella teoria Preuss lo mette in pratica nella sua instancabile attività, nelle grandiose scalate che compie su tutto l’Arco alpino sia su roccia che su ghiaccio e di quelle ancora più visionarie che è in grado di immaginare (aveva infatti programmato di tentare la salita della Cresta Integrale di Peutèrey).
È però nelle Dolomiti che Preuss realizza la “salita perfetta” quella che incarna senza sbavature il suo ideale. Il 28 luglio del 1911, in compagnia della sorella Mina e di Paul Relly è sotto al Campanile Basso di Brenta. L’intenzione è quella di ripetere l’itinerario aperto nel 1899 da Otto Ampferer e Kart Berger, ma, giunto ai piedi della via, Paul improvvisamente si separa dai compagni e comincia, da solo e senza corda, a salire lungo la compatta e inviolata parete Est del monolite.
Non è un’arrampicata lunghissima (non più di 120 metri di dislivello), ma l’esposizione è totale e la roccia povera di appigli e linee logiche di salita. I futuri ripetitori confermeranno difficoltà di IV grado superiore. Preuss sale veloce. In sole due ore è sulla cima e da lì torna sui suoi passi, disarrampicando lungo la via appena salita. È un’impresa che resterà nella storia dell’alpinismo come un esempio insuperabile di stile e perfetta adesione di teoria e pratica, una pietra miliare con la quale anche i futuri campioni del Sesto grado non potranno fare a meno di confrontarsi.
Non è un caso che il primo alpinista a ripetere la via di Preuss al Campanile Basso, nello stesso impeccabile stile da lui applicato, sarà Emilio Comici, nel 1937. Anche il fuoriclasse, che, con le sue salite estreme, sdoganerà l’utilizzo dei chiodi e delle manovre evolute di corda (quegli strumenti tecnologici tanto vituperati da Preuss), sentirà il bisogno di misurarsi ad armi pari con il maestro, dimostrando di aver ben appreso e superato la sua lezione.
Nei decenni successivi il magistero di Preuss, pur rimanendo sempre sullo sfondo della cultura alpinistica, verrà in parte oscurato dalla marcia trionfale della scalata con i mezzi artificiali, destinata a consentire agli alpinisti di risolvere, uno dopo l’altro, tutti gli “ultimi problemi” delle Alpi.
Alla fine degli anni 60, però, quando il tecnicismo (sfociato nell’introduzione e nell’uso sistematico dei chiodi a pressione) si dimostrerà un veleno capace di uccidere quella dimensione dell’impossibile che è il motore stesso dell’alpinismo, la figura di Preuss tornerà a risplendere.
Con le sue mirabolanti ascensioni e con i suoi scritti Reinhold Messner diverrà il profeta della “morte del chiodo” e il primo degli alfieri del ritorno all’arrampicata libera, riprendendo il confronto leale con il limite umano e l’impossibile, proprio dal punto in cui Preuss e altri rari “puristi” dopo di lui l’avevano interrotto, riaprendo così gli orizzonti dell’avventura alpinistica.
La vita di Paul Preuss si conclude il 3 ottobre del 1913 nel tentativo di compiere la prima ascensione dello spigolo del Mandlkogel, ovviamente in arrampicata solitaria e senza corda. Il corpo verrà ritrovato esanime alla base della parete e nessuno riuscirà mai ricostruire esattamente le cause dell’incidente. Il coltello a serramanico trovato aperto accanto alla salma porterà qualcuno a ipotizzare che, superate le maggiori difficoltà, lo scalatore austriaco si fosse fermato a riposare e, apprestandosi ad estrarre dal sacco qualcosa da mangiare, avesse perso l’equilibrio precipitando senza scampo. Un’ipotesi poco probabile, ma suggestiva e coerente con l’alone epico di cui l’immaginario alpinistico ha ammantato questa figura: proprio come accedeva per gli antichi eroi, gli dèi, invidiosi della sua fama, avevano fermato con un meschino inganno e uno scherzo del destino la sua ascesa inarrestabile…
Le più importanti prime salite
- 1911 – Prima ascensione solitaria e senza corda della parete Est del Campanile Basso di Brenta
- 1911 – Prima ascensione della parete Nordest del Crozzon di Brenta, con Paul Relly
- 1911 – Prima salita della fessura della parete Nordest della Cima Piccolissima di Lavaredo, con Paul Relly
- 1913 – Prima salita del Pic Gamba al Monte Bianco per la cresta Sud e la parete Est, con Ugo di Vallepiana
- 1913 – Prima salita dell’anticima Sud della Punta Innominata al Monte Bianco, con Ugo di Vallepiana
- 1913 – prima salita della cresta Sudest dell’Aiguille Blanche de Peutérey, con Aldo Bonacossa e Carlo Prochownick
Libri
- L’arrampicata libera di Paul Preuss, Reinhold Messner, Istituto Geografico De Agostini, 1987
- Preuss – L’alpinista leggendario, Severino Casara, Longanesi & C., 1970