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10 domande a Vivian Bruchez, fenomeno dello sci ripido

Appena tornato dalla Patagonia con la valigia piena di nuove incredibili discese, lo sciatore di Chamonix si racconta a 360 gradi. Senza nascondere il suo rapporto con la paura

Quando a 19 anni ho sciato da solo la Mallory-Porter all’Aiguille du Midi mi sono sentito a casa”, recita la bio di Vivian Bruchez pubblicata sul sito di Petzl. Grande protagonista dello sci ripido, è forse uno degli sciatori più creativi e innovativi di sempre. Ha all’attivo decine di prime discese sia sulle Alpi che in terre più remote. Sul Massiccio del Monte Bianco, casa sua, ha sciato praticamente tutto. L’abbiamo incontrato al suo ritorno dalla Patagonia, fresco di un’avventura eccezionale.

Ci racconti del tuo recente exploit in Patagonia?
È stato incredibile. Abbiamo sciato la “Whillans- Cochrane” all’Aguja Poincenot, 1.000 metri di vuoto sotto gli sci e un couloir largo un metro e ottanta. Oltre a questa prima ripetizione abbiamo sciato anche sei nuove linee in quell’area, ma nessuna così ingaggiosa. Andreas Fransson, il primo ad avere sciato sulla Whillans- Cochrane, l’aveva definita come la linea più ripida ed esposta che avesse mai affrontato. Sono completamente d’accordo. Per quanto mi riguarda questo rappresenta il limite di ciò che è sciabile. Non è solo la pendenza, è tutto l’insieme. La linea è molto esposta, poi c’è il fattore isolamento. Nelle Alpi, al momento, si possono fare le discese più tecniche al mondo, ma in Patagonia si è lontani da tutto e un minimo errore può diventare un problema serio.

È stato bello fare questo viaggio con Aurélien Lardy e Jules Socié, giovani e motivati. Aurélien è stato mio allievo quando facevo l’istruttore di sci e adesso mi segue in queste discese impegnative!

Torniamo agli albori. Sei nato a Chamonix, ai piedi del Monte Bianco. I tuoi sono maestri di sci e forse hai imparato prima a sciare che a camminare. Un destino segnato?
Ahahah, sì probabile. I miei genitori mi hanno sempre lasciato la possibilità di fare qualsiasi cosa ma io non mi sono mai posto la domanda di cosa volessi fare. Lo sapevo perfettamente, l’ho sempre saputo. La montagna, lo sci è qualcosa di assolutamente naturale e ovvio per me.

Hai realizzato tantissime prime discese. Cosa si prova?
Per me si tratta soprattutto di aprire una via, quello che in Francia si chiama l’esprit pionnier (lo spirito pionieristico). Non mi interessa essere il primo, mi piace trovare delle linee anche per gli altri. La più grande soddisfazione è sapere che gli itinerari che ho tracciato vengono ripetuti. È una sorta di regalo a chi viene dopo di me. Nell’ultimo viaggio in Patagonia, ad esempio, ho passato qualche giorno con degli sciatori locals e abbiamo scoperto una nuova linea. Nel giro di qualche settimana era già stata ripetuta sei volte. Mi piace riuscire a dare dell’ispirazione.

Ti piace molto l’ingaggio. Ma l’estetica che ruolo ha nella tua sciata?
Ogni discesa ha una storia a sé e un’estetica tutta sua. A volte l’estetica la trovo nella linea, altre volte viene dalla montagna, altre ancora dalla strategia che ho usato. Un esempio? L’Obergabelhorn. La sciata non è stata particolarmente entusiasmante, le condizioni non erano granché. Tuttavia, quella montagna è meravigliosa, un diamante delle Alpi. E per arrivarci sono partito da casa in bici (facendo 300 km con gli sci sullo zaino ndr). Questa per me è estetica dello sci.

La linea più bella?
La “Vire de Lune” all’Aiguille de Chardonnet, sciata nel 2016 con Killian Jornet. È stata una linea avanguardista, abbiamo tracciato il futuro. Sono due couloir che abbiamo collegato con un tocco di creatività. Ormai per trovare linee nuove soprattutto sulle Alpi bisogna essere creativi, innovativi.

Com’è Kilian come socio?
Formidabile! Abbiamo sciato insieme per cinque anni e per cinque anni non ho mai dovuto portare lo zaino. Scherzi a parte, lui mi ha insegnato ad osare, a non avere paura di essere chi sei. È un modello per me.

Ovviamente in salita era impossibile stargli dietro, semplicemente ci davamo degli appuntamenti. Quando abbiamo sciato la cresta di Peuterey, ci siamo dati appuntamento alle 7.30 del mattino in cima al Bianco. Io avevo dormito in rifugio ed ero in cima puntuale, lui è arrivato mezz’ora in ritardo. Era partito quella mattina stessa direttamente da Chamonix ed aveva dimenticato la frontale. È salito con la torcia del telefono e ci ha messo mezz’ora in più del previsto.
Poi la sciata è stata incredibile.

Anche se sei con dei compagni, quando scii sei da solo?
Sì, quando scii sei tu e basta. La cordata esiste ma senza corda. Io mi sono sempre sentito molto responsabile per gli altri, faccio quasi più attenzione ai compagni che a me stesso. Spesso sono io che propongo delle idee, dei progetti e ti conseguenza mi sento responsabile per le persone che sono con me. Le uniche volte che non sento di dover ricoprire il ruolo di leader è quando scio con Paul Bonhomme. Lui è come me.

Poco tempo fa hai perso un grande amico in montagna, Tof Henry. Come si riparte dopo?
Tof era un grande amico. Qualche giorno prima della tragedia ci siamo incontrati a El Chalten. Pioveva e ce ne siamo stati due giorni a chiacchierare. La sua morte mi ha distrutto ma poi si riparte. Sempre. Ho costantemente voglia di inseguire nuovi progetti. Anche in momenti difficili come questo non devo mai cercare la motivazione, è lei che trova me. Ho sempre voglia di stare sugli sci, in montagna. E poi, tra sciatori e alpinisti ci sosteniamo molto. Siamo una comunità.

Qual è il tuo rapporto con la paura?
Più vado avanti e più ho paura. Sono maniacale soprattutto nella preparazione di una discesa. Rifletto tantissimo, ho tante apprensioni, organizzo tutto nei minimi particolari. Mi faccio tante domande prima di partire, se riesco a darmi le risposte la paura scema. La paura è una sensazione che non sopporto, non mi piace proprio. Eppure, ne ho sempre tanta durante la preparazione.
Durante l’azione no. O meglio, se arrivo nell’azione con la paura significa che non ho ascoltato dei segnali e ho fatto degli errori. È capitato a volte. In quei casi divento molto reattivo, so gestire l’emergenza. Mi alleno ogni giorno per gestire l’imprevisto, è un modo per diventare efficace in ogni situazione e esorcizzare la paura.

La tua vita è in montagna. Ma c’è qualcos’altro che ti piace fare?
Adoro gli spettacoli, andare a teatro. Mi piacciono molto gli spettacoli comici ad esempio. In generale, però, amo tutto ciò che ha a che fare con la comunicazione. Video, foto, scrittura sono elementi tanto importanti quanto lo sci per me. Molti alpinisti comunicano solo perché obbligati dagli sponsor. Io, invece, amo condividere e farlo attraverso il mio lato artistico. Mi piace disegnare, creare. A proposito, stiamo lavorando a un nuovo film su ciò che abbiamo combinato in Patagonia. Spero che uscirà qualcosa di bello!

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