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A 65 anni e dopo due infarti Valerio Annovazzi festeggia il suo quinto “ottomila”, il Nanga Parbat

Camionista e muratore in pensione, Valerio Annovazzi, dopo un infarto nel 2002, decide di cambiare vita e scopre l'alpinismo. Lo scorso 3 luglio ha raggiunto la cima del Nanga Parbat e ci racconta l'ascesa alla vetta

I pensionati di una volta non esistono più. Valerio Annovazzi, classe 1958, vive in Val Brembana, ha lavorato come camionista e muratore, era nettamente sovrappeso, fumava. Ha deciso di cambiar vita nel 2002, dopo un infarto, e ha scoperto l’escursionismo e l’alpinismo. Non è stata una cattiva scelta, perché lo scorso 3 luglio, sugli 8126 metri della cima del Nanga Parbat, ha festeggiato il suo quinto “ottomila”.

Prima dell’ultima impresa, uno dopo l’altro, Valerio aveva salito il Cho Oyu, il Manaslu, il Gasherbrum II e il Broad Peak, e magnifiche cime delle Ande come l’Aconcagua, lo Huascarán e l’Alpamayo. Nella sua vita di alpinista, come per tanti altri, ci sono state anche delle sconfitte.

L’ultima, dodici mesi fa, è stata proprio sul Nanga Parbat. Qualche anno prima, sul Gasherbrum II, era rimasto senza mangiare per tre giorni, perché bloccato in un campo alto dal maltempo. Anche sul Dhaulagiri, nel 2021, Valerio ha dovuto rinunciare. La sconfitta più dolorosa è stata quella del 2018 sul Makalu, la quinta montagna della Terra, che gli è costata dei seri congelamenti alle mani.

Dopo la vittoria sul Nanga Parbat, e prima di lasciare il Pakistan per tornare nella sua Valtorta, in Val Brembana, Valerio Annovazzi ha regalato alla gente del posto buona parte dell’abbigliamento e del materiale per l’alta quota. “Sono partito con due sacche da 30 chili, torno con una sola da 20”, ha dichiarato l’alpinista all’Eco di Bergamo subito dopo essere rientrato in Italia.

Forse, però, la carriera di alpinista himalayano di Annovazzi potrebbe non finire qui. Viene in mente il titolo di un famoso film di James Bond, Never say never, Mai dire mai nella versione italiana. Il protagonista era Sean Connery, un altro che non voleva proprio andare in pensione.

Annovazzi, com’è stata la giornata di vetta sul Nanga Parbat?

Lunga e faticosa, certamente, ma senza troppi problemi tecnici. Le corde fisse terminavano poco oltre il campo III, all’inizio del tratto obliquo che porta ai piedi della cima. L’ultimo tratto è ripido, ma tra neve e ghiaccio affiora la ghiaia. Non c’è pericolo di cadere.

È stata una giornata lunghissima?

No, perché al contrario di altre spedizioni abbiamo deciso di passare una notte al campo IV. Il tempo è stato pessimo, eravamo in cinque in una tenda da tre, ma è stato giusto fare così.

Lei è salito in cima insieme ad altri due italiani, Mario Vielmo e Nicola Bonaiti, all’argentino Juan Pablo Toro e al portatore d’alta quota pakistano Muhammed Hussein. Nessuno di voi ha usato ossigeno supplementare. In quei giorni ha salito il Nanga Parbat anche il gruppo di Nirmal Purja, accompagnato da Sherpa e clienti.

È vero, e loro hanno usato respiratori e bombole. Mi ha fatto impressione la composizione di quei gruppi, con molte più guide che clienti. Un gruppo era formato da due clienti e sei guide, un altro da tre clienti e otto guide. Qualcuno è salito ed è ridisceso come le guide delle Alpi, legati in cordata e salendo di conserva.

Il tratto più difficile della via normale del Nanga Parbat è il muro roccioso della via Kinshofer, poco prima del campo II. Nelle foto pubblicate sui social dal suo amico Vielmo si vede un incredibile groviglio di corde fisse. Che impressione le ha fatto? Non si rischia, in salita o in discesa, di appendersi a una vecchia corda ormai logora e di ammazzarsi?

Il pericolo non c’è, è facile capire qual è la corda giusta. Il problema è che il muro della Kinshofer è verticale e difficile, e arriva dopo quasi mille metri di dislivello dal campo I. In salita si aggancia il jumar alla corda nuova, e con l’altra mano ci si aggrappa a un fascio di corde vecchie, e ci si tira su di peso.

I prezzi delle spedizioni commerciali all’Everest, ma anche agli altri “ottomila”, fanno pensare che l’alpinismo himalayano sia uno sport riservato ai ricconi. Non le voglio fare i conti in tasca, ma lei come fa? Riesce a partire perché ha degli ottimi sponsor? 

Purtroppo di sponsor non ne ho mai avuti, e invece mi sarebbero proprio serviti. Però l’alpinismo degli “ottomila”, soprattutto in Pakistan, non è un’attività per miliardari. Fino all’anno scorso, per una spedizione al Nanga Parbat, bastavano meno di 4.000 euro. Ora i prezzi sono aumentati, ma non troppo.

Mi racconti del suo passato. Era davvero un fumatore sovrappeso?

Proprio così, ero il classico camionista che andava in giro per l’Europa. Pancia, niente sport, fumavo almeno un pacchetto di sigarette al giorno.

Perché ha cambiato il suo stile di vita?

Nel 2002 ho avuto un infarto, mi hanno messo uno stent, ho deciso di cambiare. Sono sceso da 93 chili a 70, ho smesso di fumare, ho iniziato a camminare in montagna. Negli anni sono arrivati i primi trekking, e in uno, in Ladakh, ho salito il mio primo “seimila”. Mi è piaciuto, e sono salito di quota.

A quel punto, però, c’è stato un secondo infarto…

Vero, dopo il ritorno dalle Ande nel 2015. Lì ho esagerato, ho salito 4 o 5 vette importanti, tra cui lo Huascarán e l’Alpamayo, con trasferimenti dall’una all’altra. Due o tre giorni dopo essere tornato in Italia mi sono sentito male. Mi hanno detto che per lo sforzo si era spostato lo stent.

Scusi, ma il suo cardiologo cosa dice della sua attività in montagna? Approva le spedizioni agli “ottomila”?

Il mio cardiologo è un amico, e mi ha sempre detto “Valerio, devi fare quello che ti senti di fare”. Nell’ospedale di Lecco, nel reparto di Cardiologia, è esposto un articolo che parla di me.

Ma lei si sente sicuro, ad alta quota, con la sua storia sanitaria e il suo stent?

Quando parto per un “ottomila” non penso al cuore e agli infarti. Però parto dopo essermi allenato molto. In estate vivo in montagna, in una baita sopra Valtorta, il paese più alto della Val Brembana. Ho una buona gamba, sono sempre in giro. La quota delle vette non è alta, tra i 2500 e i 2600 metri, ma ci si può allenare bene.   

Quando parte per le spedizioni porta con sé dei medicinali che le ha prescritto il cardiologo? Qualcosa da usare in caso di un nuovo attacco?

No, porto le stesse medicine degli altri alpinisti, da usare per la quota, per il mal di testa, per il vomito, per la diarrea. Quest’anno sul Nanga Parbat abbiamo avuto delle diarree terribili!

Lo spazio è quasi finito e l’ultima domanda è ovvia. Il Nanga Parbat è stato davvero il suo ultimo “ottomila”? Non è possibile che, nei prossimi mesi, le torni la voglia di salire in cima al mondo?

Direi proprio di no. Ho già detto, a lei e ad altri, che in Pakistan ho regalato gran parte del materiale. Ricomprarlo sarebbe troppo caro, l’ho fatto per evitare le tentazioni. E poi l’ho promesso a Giuliana, mia moglie.   

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