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L’ultimo sguardo di Riccardo Cassin. La fotografia della memoria di Jim Herrington

Il fotografo racconta gli scatti della serie "The Climbers", ritratti di alpinisti famosi e anziani

In una foto in bianco e nero, scattata quattordici anni fa alle porte di Lecco, un uomo anziano sembra guardare fuori da una finestra semiaperta. È un momento drammatico e privato, perché Riccardo Cassin, uno dei migliori alpinisti di tutti i tempi, qualche mese prima ha compiuto cent’anni. E ora si sta avvicinando alla morte.
“Lo avevo cercato a lungo, ma non ero riuscito a incontrarlo. Non parlo italiano, a quel tempo Internet era meno diffuso e meno potente di oggi. Poi mi è arrivata una telefonata da Lecco. Vieni, fai in fretta, Riccardo non ne ha più per molto” racconta Jim Herrington, il fotografo americano che ha scattato quell’immagine, e l’ha inserita nel suo libro The Climbers.
“Quando me lo sono trovato davanti, Riccardo Cassin non riusciva più a parlare, ma sono sicuro che capisse. Guardava fuori dalla finestra, verso il lago, aveva la famiglia intorno” prosegue Herrington. “La morte è un momento straordinariamente privato, mi sono sentito un intruso, un paparazzo. Quello è stato il primo ritratto a un alpinista che ho scattato fuori dagli Stati Uniti.

Nelle scorse settimane, nella Piazza Battisti di Trento, quell’immagine di Riccardo Cassin ha emozionato migliaia di visitatori del Trento Film Festival. Hanno avuto lo stesso effetto i ritratti scattati da Herrington a decine di altri alpinisti famosi, da Chris Bonington a Jim Bridwell, da Armando Aste a Yvon Chouinard, da Pierre Mazeaud fino a Kurt Diemberger e Reinhold Messner.
Nei ritratti della serie The Climbers, nel libro pubblicato nel 2017 negli USA (e che include testi di Alex Honnold e Greg Child) o nella mostra di Trento, non compaiono muscoli in azione o volti giovani, e nemmeno montagne o pareti.
Al loro posto si vedono rughe, sguardi pensosi, interni di case oppure tranquilli paesaggi di campagna. Sulla rivista francese Vertical, Henri-Luc Rillh ha definito il lavoro di Herrington “forte, quasi brutale”, e “un lavoro sulla memoria”. Un inno alla vita che prosegue, fatto quando il momento migliore è passato, e la fine inizia ad avvicinarsi.

Jim Herrington, com’è nata la sua passione per la fotografia?
Sono cresciuto in una cittadina della North Carolina, in casa c’erano un mappamondo, un atlante, un’enciclopedia e molte copie del settimanale Life, uscite negli anni Trenta e Quaranta. Quelle foto in bianco e nero mi hanno emozionato, e poco importava che ci fossero Parigi, Brigitte Bardot o il Polo Sud.

Non c’era l’alpinismo sulle pagine di Life? Non ha visto la celebre fotografia di Tenzing in cima all’Everest?
L’ho vista, ma a emozionarmi sono state le immagini di Gaston Rébuffat e Lionel Terray negli stessi anni, con il loro abbigliamento e i loro scarponi di cuoio. Sembravano star del cinema, emanavano emozioni e sesso.

Quelle foto l’hanno spinta a fotografare gli alpinisti?
No, quelle immagini sono venute molti anni dopo. Ho avuto delle macchine fotografiche già da bambino, quando avevo 13 anni ho fotografato Benny Goodman. Da allora sono sempre stato attratto dalla musica e dai musicisti. Negli anni ho fotografato i Rolling Stones, Tom Petty, Jerry Lee Lewis e stelle del country come Dolly Parton e Willie Nelson. Vivo a Nashville, sono sempre stato legato alla musica del “vecchio Sud” degli Stati Uniti.

Dove e quando ha incontrato l’alpinismo e gli alpinisti?
In California, dove mi sono trasferito per vivere e per lavorare. Mi sono appassionato alla Sierra Nevada e a Yosemite, ho iniziato ad arrampicare. Mi innamoravo di una storia e partivo. La macchina fotografica è stata il mio passaporto per l’avventura.

Ha scattato anche foto di arrampicata? O paesaggi nello stile di Ansel Adams?
No, mi sono subito concentrato sui ritratti. Ho iniziato con grandi alpinisti del passato come Glen Dawson e Jules Eichorn, che avevano compiuto le loro imprese subito prima e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’idea di ritrarli da anziani, molto dopo i loro “giorni grandi” è partita da lì, ed è rimasta nella mia ricerca.

Poi, dalla Sierra e da Yosemite, lei è passato al resto degli USA e all’Europa. Giusto?
Sì, ma molto lentamente. La prima foto scattata lontano dalla West Coast è stata quella di Bradford Washburn, a Boston. Poi è arrivato Riccardo Cassin a Lecco. Con le mie immagini sono andato alla ricerca ci cosa significa vivere al limite, e di cosa significa invecchiare.

Come ha scelto i soggetti da fotografare?
Non ho avuto un approccio scientifico, sono semplicemente passato dall’uno all’altro. Ci tenevo ad avere Reinhold Messner e Chris Bonington, due alpinisti che hanno fatto la storia. Mi dispiace non aver incontrato e fotografato Walter Bonatti.

Gli alpinisti sono mai stati al centro del suo lavoro?
No, sono diventati una passione, ma ho fotografato soprattutto musicisti e gente dello spettacolo. Le mie foto sono uscite su Vanity Fair, su Rolling Stone e sul New York Times.

Poi però è arrivato il libro
Sì, The Climbers è uscito nel 2017, ed è subito stato premiato al Festival di Banff con il Grand Prize e il Mountaineering History Award. È seguito un tour di presentazioni di un anno, in Europa, Nord America e Asia.

Oggi c’è molto interesse intorno alla fotografia di montagna, qui a Trento ho visto molta curiosità per le sue foto, anche da parte dai giovani. Come si impara a fotografare gli alpinisti?
Se vuoi suonare devi ascoltare molta musica. Se vuoi fotografare devi guardare e capire la fotografia. Se vuoi fotografare la montagna devi conoscerla, e magari praticare l’alpinismo.

Lei usa macchine fotografiche di qualità, come Hasselblad e Leica, oggi molti utilizzano il telefono cellulare. Si possono fare belle foto anche in questo modo?
Certamente sì, se si scelgono bene la luce e il soggetto, con un telefono si può fare una foto migliore che con una macchina da diecimila dollari. Anche le macchine professionali non sono perfette, ognuna è adatta per un tipo di immagine e non per tutto.

Lei insegna a fotografare ai dilettanti?
Sì, da qualche anno ho iniziato a proporre dei workshop, mi piace, voglio continuare. Nei prossimi giorni ne terrò uno a Venezia.

Un’ultima curiosità. Di solito gli alpinisti, anche se hanno smesso da molto tempo, vengono fotografati davanti alle loro montagne, oppure tra corde, chiodi e altri cimeli di scalate. Nelle immagini di The Climbers tutto questo non esiste…
È vero, ci tengo a staccare gli uomini (e le donne) dai paesaggi e dagli oggetti, voglio raccontarli e farli vedere per quel che sono.

Ma i suoi soggetti non le hanno proposto di scattare qualche foto davanti alle vette, oppure con i loro cimeli?
Lo hanno fatto, certo. Ho spiegato che nelle mie foto volevo altro, e molti di loro hanno capito, e si sono fidati. In qualche caso le foto con le corde, o con le vette sullo sfondo, le ho scattate. Ma poi non le ho utilizzate.

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Un commento

  1. Ho letto il titolo dell’articolo e ho pensato: «questo l’ha scritto Stefano Ardito». Era così, grazie!

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