AlpinismoAlta quota

Vitaly Lazo e Anton Pugovkin partiti per l’Everest. Obiettivo: salita senza ossigeno e discesa con gli sci

“Ciao a tutti, siamo partiti per l’Everest!”. Questo il breve messaggio con cui l’alpinista russo Vitaly Lazo ha annunciato a sorpresa sui social, nella tarda serata di martedì 4 aprile, la ripresa di “Death Zone Freeride”, progetto avviato insieme alla guida alpina Anton Pugovkin nel 2017, con l’intento di effettuare la salita senza ossigeno supplementare seguita dalla discesa sugli sci di alcune delle vette più alte del Pianeta. Inizialmente erano stati identificati 5 obiettivi ma poi il numero è salito a 8: Manaslu (8164 m), Annapurna (8091 m), Nanga Parbat (8125 m), Broad Peak (8051 m), Everest (8849 m) e Gasherbrum II (8035 m), Lhotse (8516 m) e K2 (8611 m).

In 5 anni dall’avvio del progetto, i due Snow Leopards – riconoscimento assegnato agli alpinisti che abbiano salito le 5 vette superiori ai settemila metri che si trovano all’interno del territorio dell’ex Unione Sovietica, ovvero Picco Ismail Samani (ex Picco del Comunismo), Picco Korženevskaja, Picco Ibn Sina (ex Picco Lenin), Picco Žeņiš Čokusu (o Pic Pobeda), Khan Tengri – sono riusciti a depennare dalla lista due Ottomila, raggiungendone la cima e realizzandone la discesa sugli sci: il Manaslu, nel settembre 2017, e il Nanga Parbat, in compagnia di Cala Cimenti, nel luglio 2019. E in teoria avrebbero potuto anche essere 3, se non 4.

Due Ottomila sfuggiti

Nel settembre 2018 la coppia, impegnata nell’ascesa dell’Annapurna, ha optato per abbandonare l’idea di raggiungere la cima una volta a quota 6300 m, a causa dell’elevato pericolo valanghe, realizzando dunque una ascesa e discesa parziali. Tre anni più tardi, nel luglio del 2021, mentre erano impegnati nel tentativo di vetta sul Broad Peak, Vitaly e Anton si sono ritrovati ad affrontare una situazione di emergenza. Partiti da C3 il 17 luglio, hanno optato all’indomani per un ritiro, stavolta a causa dei tempi stretti (erano già le 4.30 del pomeriggio e mancava ancora circa un’ora e mezza alla vetta, avrebbero dunque rischiato di dover scendere al buio). Altri team in salita non hanno mostrato la medesima determinazione, proseguendo in una ascesa ad alto rischio.

Verso mezzanotte, rientrati da alcune ore al C3, i due hanno ricevuto un messaggio che informava della caduta di due alpinisti in fase di discesa dalla cima: la russa Anastasia Runova e il sud-coreano Kim HongBin. Lazo e Pugovkin sono ripartiti in salita per prestare soccorso ai due e hanno raggiunto per prima l’alpinista russa – aiutata nel mentre da alcuni portatori a uscire dal crepaccio in cui era caduta – fornendole acqua e desametasone. Anastasia è stata poi accompagnata da Anton al C3 (senza ramponi, abbandonati nel crepaccio) e successivamente dai compagni a campo base. Vitaly ha invece proseguito la sua salita per soccorrere il sud-coreano, caduto in un crepaccio a 7900 metri. Lo ha raggiunto ma purtroppo, in fase di risalita, a causa di un problema con la jumar, Kim è precipitato. Un incidente fatale. Un secondo tentativo di salita in vetta è stato realizzato dai due alpinisti russi il 26 luglio, ma a causa dell’elevato pericolo valanghe, hanno deciso di fare dietrofront a 7600 metri. Un’esperienza dura, a conclusione della quale Lazo dichiarava: non so dire con certezza se torneremo al Broad Peak. Ci vorrà tempo per ripensare a tutto, per riposare, e al momento non voglio proprio pensare alle montagne.”

E si riparte dall’Everest

A distanza di quasi 2 anni dalla infausta stagione del Broad Peak, i due alpinisti sono pronti a tornare nella Death Zone. La spedizione di primavera, come riportato sul sito del progetto (www.deathzonefreeride.com) prevede, oltre alla salita senza ossigeno e la discesa sugli sci, di effettuare riprese per la realizzazione di un documentario. Nell’attesa, vi consigliamo di guardare quello realizzato sul Nanga Parbat insieme al compianto Cala.

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